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QT n. 21, 4 dicembre 1999 Fondo

E questa sarebbe la “terza via”?

Non so voi, ma io della "terza via" non ci ho capito nulla. Eppure se n’è parlato tanto a Firenze, durante il fastoso incontro dei capi di governo social-laburisti-democratici d’Europa e d’America. Per riguardo verso l’argomento trattato un po’ più disobrietà forse non avrebbe guastato, visto che non si erano riuniti per celebrare qualche fausta ricorrenza, ma per ricercare cosa possono fare i governi "riformisti" dei più ricchi Stati del mondo per rimediare alle infinite miserie che ancora esistono nelle società opulente, ed ancor più fuori dai loro confini. Qual è il senso di un rovello per trovare una "terza via", se non questo? Una via per cominciare ad uscire dalle disuguaglianze, dalla schiavitù, dalla violenza, dalla fame, dalle carestie e dalle malattie, che ancora flagellano immense moltitudini di esseri umani.

Beninteso, è già commendevole che si siano proposti un tale obiettivo. Vi è infatti anche chi è convinto che questo sia il migliore dei mondi possibili, e che perciò non occorra cercare alcuna via per cambiarlo. Secondo costoro il mercato è il grande regolatore di tutte le vicende umane. Le sue leggi della domanda e dell’offerta, l’iniziativa privata, la competizione economica, le Offerte Pubbliche di Acquisto (OPA), con la spavalda ostentazione di migliaia di miliardi, gli ingenti capitali trasferiti da una Borsa all’altra per la magica virtù di un impulso digitale, la flessibilità dei salari e dei posti di lavoro, la privatizzazione dei servizi sociali ed il taglio delle pensioni e delle tasse, tutto ciò per costoro rappresenta il massimo della razionalità, e rispetto ad esso non vi è nulla che sia più desiderabile. Il libero sprigionarsi delle energie predatorie dell’essere umano costituisce il modo migliore per aumentare il PIL, il prodotto interno lordo, cioè la ricchezza delle nazioni, per dirla con Adam Smith. E non conta nulla, anzi è perfettamente normale, addirittura fisiologico che in questo congegno i ricchi diventino sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri, e che milioni di disoccupati formino l’esercito di riserva necessario per assicurare al Sistema la sua elasticità.

Vi è poi chi pensa che tutto ciò sia deplorevole, ma che purtroppo non ci sia alcuna altra realistica alternativa.

Il movimento socialista di questi ultimi due secoli (ed a suo modo anche la dottrina sociale cristia- na) aveva invece concepito due vie per uscire dal dominio impietoso di queste primitive regole selettive: la via comunista, che attraverso il rovesciamento violento del modo di produzione capitalistico instaurasse una società senza classi con la gestione sociale di tutte le attività economiche; e la via socialdemocratica o riformista che, con mezzi democratici, mirasse ad una trasformazione generale del sistema mitigandone gli effetti più selvaggi. La prima via ha distrutto il regime medievale vigente in Russia prima del ’17 e tolte dalla condizione di estrema arretratezza in cui vivevano numerose popolazioni in altre zone del pianeta, ma con immani sacrifici di vite e della libertà individuale ed instaurando un’organizzazione dell’economia dotata di infima efficienza.

La seconda via ha creato nelle aree più prospere lo stato sociale, realizzando una relativamente più equa redistribuzione della ricchezza. Entrambe queste vie ora sono divenute, per usare un eufemismo, dei vicoli ciechi. Non è solo la via comunista che è crollata con la fine della guerra fredda. Lo strabiliante progresso delle tecnologie informatiche ha esposto anche lo stato sociale della vecchia Europa agli scossoni dei nuovi equilibri dell’economia mondiale. Stato sociale, peraltro, già di per sé messo in crisi - quasi un effetto boomerang - proprio dal più significativo dei suoi risultati, la longevità dei pensionati.

Da qui la necessità di creare una nuova strada. Ma, a leggere ciò che è stato detto a Firenze, l’orizzonte sembra piuttosto annebbiato. Non tanto per la presenza di Clinton, che sarà anche un democratico ma che mi è difficile considerare un "riformista" nell’accezione europea di questo termine. Ciò che lascia sconcertati è la rappresentazione che della "terza via" ha dato il suo inventore Tony Blair. Egli parla volentieri di equità, pari opportunità, solidarietà e responsabilità. Poi però, quando scende al concreto, all’accettabile prospettiva di attrezzare i giovani con gli strumenti delle moderne tecnologie, aggiunge il proposito di "promuovere concorrenza ed incentivare le imprese, trasformare il sistema sociale da una rete di sicurezza in un trampolino di lancio..., offrire a milioni di persone la possibilità di cambiare occupazione..., dobbiamo diventare più flessibili". Che "terza via" è questa? Non mi sembra che ci sia bisogno di governi "riformisti" per attuare questa politica.

Non ho sentito parlare, a Firenze, della riduzione dell’orario di lavoro come unico mezzo per risolvere il problema della disoccupazione. Né alcuno ha ricordato che accanto all’obiettivo di aumentare il PIL bisogna anche porsi quello di una sua più equa distribuzione. Se non persegue questi scopi, pur di lunga lena e di non facile attuazione, che "terza via" è mai questa? E’ solo un circuito chiuso, una vana predicazione incomprensibile, un orpello di vacua modernità gergale.

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