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“Registro di classe”

Sandro Onofri, Registro di classe. Einaudi, Torino, 2000, pp. 100.

Quasi mai ero d’accordo con gli articoli di Sandro Onofri, pubblicati sul’Unità o su Diario della settimana. Eppure correvo a leggerli, appassionati e infuriati com’erano, di un insegnante capace di motivare altri insegnanti, di commuoverli, di farli adirare, e vergognare talvolta. Ti venivano incontro in una lingua sinuosa, che toccava ogni tasto, dalla malinconia all’invettiva.

"Siete africani nel gusto per i colori forti, arabi nel modo di ridere così fragoroso, a convulsioni. E odiate gli africani e gli arabi", grida (o sussurra?) ai suoi studenti di liceo, proletari della periferia romana.

Dei genitori a udienza traccia questo ritratto: "Ci sono essenzialmente due categorie di genitori: quelli che vengono per parlare dell’andamento scolastico dei propri figli, e quelli che ritengono di doverli proteggere contro le angherie dei professori".

I professori invece sono descritti così: "Quelli che di questi tempi, con gli scrutini, non fanno che interrogare e interrogare. Quelli che tanto non serve a niente. […] Quelli che fate come volete basta che non mi fate tornare di pomeriggio un’altra volta. Quelli che per quello che ci danno. Quelli che io, con questi studenti qua, posso concedere al massimo un cinque. Quelli che io do tutti sei, mica voglio tornare a fare il recupero. Quelli che la scuola sarebbe così bella se solo non ci fossero i ragazzi. Quelli che a me mi mancano solo due anni per la pensione. Quelli che a me ne mancavano solo tre, ma mi hanno fregato."

E’ una pagina esilarante, senza una caduta di ritmo, di parole accumulate attorno all’anafora "quelli". Frecce acuminate colpiscono poi sindacalisti, intellettuali, ministri.

E’ una lingua vicina al parlato, libera e mossa, a "cancelli aperti", che anche i giovani avrebbero diritto di maneggiare, senza il terrore della matita rossa e blu che censura.

Onofri talvolta sospende anche per loro le regole sintattiche e lessicali, e allora i ragazzi scrivono e inventano, e si confidano. Quello giovanile è un gergo in evoluzione. Qualche giorno fa ho imparato anch’io, l’ho visto in azione durante il concerto di fine anno, il verbo "pogare": mentre un gruppo suona sul palco, a tutto volume, ragazzi e ragazze si spingono e saltano, si abbracciano e accavallano i corpi sudati.

Spesso le idee di Onofri mi indispettivano. Una volta, adirato, scrissi al giornale: "Gli articoli di Sandro Onofri piacciono, ma non convincono. Anch’io ricordo con piacere la "brillante" lezione su La Ginestra di Leopardi e quella ‘appassionata’ sull’antifascismo di Gramsci e Gobetti, De Gasperi e Croce. O addirittura l’ora di supplenza in cui, abbattuti gli argini, si ascolta e si parla con spontaneità. Ed è forte la tentazione di definire questa la "vera scuola", e non anche i momenti faticosi in cui costruisci e valuti le abilità acquisite dagli studenti. Cioè i giorni grigi, quando la letteratura è fatta di concetti freddi che permetteranno, forse, ai ragazzi di leggere per sempre, e non solo quando essa appare "mistero inspiegabile" che commuove un istante. Stabilire obiettivi confrontabili, fra classi e fra scuole, verificarne il raggiungimento, predisporre strategie di recupero non dà certo la felicità, ma è necessario, se vogliamo costruire un paese civile. […] Perché il pessimismo di Leopardi si possa definire ‘l’idiozia più feroce’ occorre che qualcuno insegni a tutti, umilmente, il significato di idiozia e di feroce, e poi controlli, magari con un test, se tutti hanno capito".

Oggi che Sandro Onofri non c’è più, strappato alla scuola, e alla vita, ancor giovane, i suoi brani di diario, riuniti in volume, vanno criticamente discussi, proprio per il rispetto che gli è dovuto. Egli ha insegnato con passione la letteratura e la storia. Di sinistra, si è scontrato con i giovani sulla politica.

La scuola è per lui il luogo delle emozioni, dove si formano gli uomini e i cittadini, ragazzi e ragazze. Non ha paura dell’imprevisto che ogni giorno, e ogni studente, a scuola hanno in serbo. Per questo può dire a se stesso: "Esiste un mestiere più bello del mio?"

I "bravi" insegnanti, avverte, non devono farsi catturare dai miti della programmazione, dell’oggettività, della standardizzazione. L’adolescente è istinto, impulso, emozione, mentre le esigenze della istruzione professionale stanno soffocando la formazione umanistica.

Ma così Sandro Onofri, per amore dei giovani, certo, sopprime un corno del dilemma a cui la modernità ci condanna. Io penso che la scuola oggi è proprio questa antinomia, di cui l’insegnante, lo studente, la società, non potranno mai liberarsi. Istruzione e formazione, lavoro specialistico e cittadinanza, pensiero ed emozione sono esigenze contraddittorie, ma ugualmente legittime. E così il programmare e l’aprirsi all’imprevisto. Nel fondo l’antinomia è fra l’adeguare i giovani a una cultura che la storia ci consegna già data, e il trasformarla creativamente per i giovani stessi che cambiano, fra la società che pretende disciplinamento, e l’individuo che aspira a realizzarsi.

Subordinare l’individuo alla tecnica e all’economia è inaccettabile. Ma potremo salvarlo semplicemente negando le "ragioni" della modernità?

Si è accumulata tanta arida burocrazia nella scuola, Sandro Onofri accusa a ragione. Ma troppo spesso nella burocrazia incriminata sono arruolati i lavori faticosi della collegialità. Molti ragazzi falliscono non perché sono insegnate male le lingue e le scienze, ma perché non funziona il consiglio di classe, in cui insegnanti, studenti, genitori, sono chiamati a dialogare.

Con gli anni ho capito che affinché, dentro l’aula, io possa insegnare con qualche efficacia, e i ragazzi apprendere con qualche piacere, devono funzionare, di fuori, la commissione che forma le classi, quella che assegna le cattedre, e quella che decide gli acquisti di libri e CD. E’ importante chi incasella l’orario, chi scrive i verbali, chi nomina lo psicologo al Cic. Chi decide la struttura dell’aula multimediale, e come riaggiustare i muri per ricavare uno spazio per cinquanta studenti. Leopardi e Montale non ci parlano nel vuoto di una campana di vetro, separati da queste fatiche vischiose.

Sandro Onofri si scaglia con furia, ma ciecamente talvolta, contro i vincoli, le innovazioni, le leggi, che chiedono agli insegnanti anche "obbedienza", cioè coscienza della necessità. Protesta contro l’abolizione degli esami di riparazione. Difende, al fianco di Giulio Ferroni, e contro Tullio De Mauro, il "tema di italiano", eliminato con un decreto dall’alto e improvviso: e non sa che per altri insegnanti, che da anni praticano il plurilinguismo, è una riforma timida ancora e tardiva. A uno scrittore come lui, gli inviti all’articolo e al saggio, all’analisi e alla recensione, sembrano vincoli insopportabili e autoritari. Per altri insegnanti, comuni e impegnati, sono indicazioni che rinnovano finalmente il mestiere.

La Confindustria chiede verifiche sull’efficienza della classe docente italiana? E’ una vergogna, ribatte Onofri, perché il nostro è il capitalismo più assistito d’Europa. In un’occasione chiese persino di tagliare i fondi destinati agli istituti per l’aggiornamento, e di dare quei soldi direttamente ai singoli insegnanti per l’acquisto di libri. Diseduca, quando scrive così.

Lui era un insegnante creativo, non permissivo, e amato - si intuisce - dagli studenti. Poteva scrivere anche per paradossi, ed ergersi contro il mondo. Ma non è "vittimismo" quello degli "alunni che pensano a quanto prendono i compagni invece che mettersi con la testa a studiare": a scuola giustificare i voti è importante quanto criticare il razzismo.

E’ un libriccino da leggere, insegnanti, studenti, genitori che siamo. Non ne conosco il prezzo, perché l’ho avuto in regalo: anche questo succede nella scuola italiana di oggi.

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