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QT n. 9, 5 maggio 2001 Monitor

Un malato arzillo ma non troppo

La commedia di Molière per la regia di Lamberto Puggelli.

Sembrerà strano, ma non capita spesso di ridere al "Malato immaginario". Con un Argante settantenne, nel migliore dei casi, è difficile credere che tutti quegli acciacchi siano solo fantasie… La scelta di Puggelli è dunque un colpo di genio: affidare la parte del cocciuto ipocondriaco a un "ragazzo" di 54 anni, il bravissimo Franco Branciaroli. Vien da chiedersi perché pochi altri ci abbiano pensato. Ciò che importa, però, è che finalmente sia stata resa giustizia al testo originale di Molière; così com’è accaduto, tempo fa, con gli "Spettri" di Ibsen allestiti da Cesare Lievi. A teatro, un po’ di filologia non guasta, è un segno di rispetto, dedizione al palcoscenico.

Una commedia esilarante "Il malato immaginario", ma non delle più semplici. La sua architettura è studiata in ogni mezzatinta, nei minimi passaggi. Molière, in punto di morte, ci ha lasciato il suo dono più prezioso. Parodia, satira, metateatro, l’autore non risparmia nulla, accusando col sorriso sulle labbra la società del suo tempo e del nostro, dalla famiglia all’Università. Gli anni passano, i problemi restano. Se l’abito fa il monaco, il cognome tanto meglio: siamo certo più tranquilli se a curarci è il medico Aulenti, Purgoni o nientemeno che Diarroicus! Il notaio, poi, non può che essere il fidato Buonafede… Se quei nomi ci hanno divertito tanto, il merito va a Patrizia Valduga. La sua traduzione dal francese e dal latino maccheronico è stata forse tra le più faticose in cui si sia mai cimentata.

Molti i momenti topici dello spettacolo, specialmente negli intermezzi e negli ultimi due atti. Ricorderemo a lungo il Tommaso di Luca Sandri, tutto preso da ridicole arringhe amorose e da una mimica senza pari. Un fenomeno, questo giovane nella parte del degno figlio di Diarroicus, che colpisce l’uditorio a suon di eliotropi e statue di Memnone! Indimenticabile l’Angelica di Teresa Vanalesti, da far invidia (oltre che il verso) alla Cordelia del "Re Lear". Stessa passione, stessa sete di giustizia, ma calate in un dramma che nulla ha di tragico se non nell’apparenza. Il malato è sanissimo, nonostante le sue paure persino nel fingersi morto: "Non ci sarà qualche rischio?".

Quasi tutta l’opera si basa sul contrasto fra realtà e finzione, fra essere e sembrare. Nel Seicento bastava una berretta: un attimo e si era medici, notai o chissà che altro. Argante, guarito, si laurea in casa con una farsa d’esame, tra buffi canti goliardici e il grottesco violino di Simone De Pasquale. Ma i dottori, quelli veri, che cosa sanno più del paziente? Anni di studio per riempirsi la bocca di vuoti paroloni fra un clistere e l’altro. Vedete? La serva Tonina si veste da medico e i suoi consigli diventano il Vangelo: mangiare grassi, bere vino, tagliarsi un braccio, cavarsi un occhio, finché Argante borbotta che a quel braccio e a quell’occhio è troppo "attaccato".

Ma "Il malato immaginario" non è solo satira o denuncia sociale. Nel suo filtro passano anche le caricature dei grandi modelli classici. Pensiamo a Cleante che si dichiara ad Angelica, la figlia di Argante. Una lezione di canto, lui e lei che, con la scusa, quasi tubano davanti al padre della ragazza. Il fidanzato mette in scena il suo amore, il suo dolore, come fosse un’operetta. Non è forse una parodia dell’"Amleto"? Stavolta, però, ad assistere non ci sono Claudio e Gertrude col loro orrendo delitto, ma un futuro suocero che preferisce dar la figlia a un medico o a un farmacista perché in casa gli è più utile. Tutto è distorto nella sua mente, sconnesso come il pavimento e la porta che richiamano i quadri di Munch nelle scene di Luisa Spinatelli.

Molière, che come il compianto Sinopoli è morto quasi a teatro, si congeda dal pubblico canzonando anche se stesso, la sua sfiducia nella medicina e in chi la pratica, in buona o cattiva fede che sia. Puggelli ce l’ha restituito con tutto il suo fascino, la sua complessità. Peccato solo che la splendida voce dell’indomita Tonina (Susanna Marcomeni) sia stata rovinata, ma solo alla prima, da un microfono ribelle piuttosto che dal mal di gola. Speriamo sia l’ultimo di simili inconvenienti e che all’Auditorium si convincano che il nostro non è il teatro di Epidauro. Se cade una moneta sopra il palco, chi la sente? Sarà il campanilismo, sarà che questo era l’ultimo appuntamento della stagione (e non si può parlarne male), ma sembra davvero che da queste parti "la commedia la facciamo fra noi".

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