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QT n. 1, 12 gennaio 2002 Monitor

La “Moscheta” dimezzata

Sale semivuote per il lavoro di Ruzante messo in scena dal Teatro degli Incamminati. I perchè di un mezzo flop, immeritato.

Platea semivuota all’Auditorium. Stesso ritornello, serata dopo serata. "La moscheta" del Teatro de gli Incamminati non è stata lo spettacolo di grido della stagione.

Franco Branciaroli.

Peccato, perché questa commedia ha il tono scanzonato e irriverente che tanto piace al pubblico. Ruzante la scrisse nel 1529, o giù di lì, eppure il testo è ancora attuale. E pensare che il regista Claudio Longhi dà una rispolverata solo agli abiti… non più calzabrache e camicie ricamate (che anche i meno ricchi potevano permettersi), ma semplici vestiti anni ’40. Un modo esteriore, visivo per dire che il mondo è paese e che, in cinque secoli, cambiamo meno di quanto pensiamo. La Padova e la Bergamo del Cinquecento ripropongono tutt’oggi rivalità e stereotipi duri a morire.

Qual è lo scoglio allora? La lingua naturalmente! Ma il dialetto non c’entra. Le opere di De Filippo e di Scarpetta, o quelle di Goldoni, non sono andate incontro ad ostracismi. Sarà un problema del pavano, del bergamasco, poco diffusi sul territorio e (soprattutto il secondo) non sempre comprensibili. Eppure, questo modo di vedere ci convince solo in parte. L’italiano parlato non nasce né con Dante né con Bembo, e nemmeno con Manzoni. Molto tempo dopo l’unità d’Italia, è il dopoguerra a farlo vivere, a nutrirlo. E, guarda caso, Longhi ammicca a quel periodo coi costumi disegnati da Gianluca Sbicca e Simone Valsecchi. Dal Medioevo fino a gran parte dell’Età moderna, i dialetti erano radicati nel profondo di realtà regionali e comunali, esprimevano un modo di essere, un’identità. Oggi, l’italiano ci ha omologati; e gli altri idiomi, i "vernacoli" come vengono chiamati, sono ormai una via di mezzo fra passatempo e nostalgia. Un inguaribile anacronismo.

Ripescare la "Moscheta" significa offrirci un brandello della nostra storia; una "retrospettiva", se vogliamo, con un pizzico di filologia.

Il regista poi, come qualche attento critico ha notato, riesuma le scene a semicerchio (da aula d’anatomia) del teatro barocco, peraltro successivo a Ruzante.

Le epoche s’incontrano, si sbirciano; ma lo sfondo è immobile, reso vivo soltanto dai personaggi. Non si tratta di "staticità": è il tentativo - riuscito e non troppo capito - di rendere la livella del tempo, il suo ripetersi sempre uguale, anche se con uomini e donne diversi.

In fondo, anche a teatro vale il detto "meglio pochi ma buoni". E quei pochi hanno applaudito, pur senza riempire il teatro. Crediamo, però, che certi eventi avrebbero qualcosa da insegnare a tutti noi, specialmente a chi pensa che Shakespeare è Shakespere e che, invece, uno spettacolo così lo si può anche disertare.

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