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QT n. 2, 26 gennaio 2002 Monitor

Un Molière per tutte le stagioni

Due mesi fa "Le furberie di Scapino", adesso "L’avaro". Due Molière così vicini sono un evento raro, un’occasione da cogliere al volo. Meglio, però, non fare confronti; un modo "giusto" o "sbagliato" di mettere in scena non esiste in senso assoluto. Molto dipende dalla sensibilità del regista, da quanto è capace di leggere il testo in profondità, fra le righe, per poi reinventarlo. Questo è ciò che ha fatto Savary con il suo "Avaro": la commedia gli appartiene tanto quanto a Molière.

Alessandro Haber.

Sul palco, oggetti familiari ma impensabili nel Seicento. Non si tratta di provocazioni, di addobbi per accattivarsi il pubblico. Certo, a quei tempi non ci si scattava foto-ricordo né si metteva la spesa nel carrello; non c’erano macchine da scrivere e i commissari non si facevano una flebo (o peggio)! Però bisogna ammettere che, senza questi accorgimenti, avremmo riso della vecchia defunta società e non invece della nostra. Come Molière, Savary prende in giro i contemporanei con opere calate nella realtà di tutti i giorni. Non è questione di svecchiare la commedia, ma di riportarla all’epoca in cui è rappresentata perché ne sia lo specchio. Ci riconosceremmo in ambienti e circostanze lontani da noi? Non siamo contrari alla filologia e all’archeologia ma spesso, a teatro, quegli approcci che vorrebbero aiutare, ridar vita ai testi originali, ne solcano ancor più la distanza fra la nascita (la loro "giovinezza") e l’esecuzione postuma. Di colpo, anche un capolavoro ci suona terribilmente vecchio.

Qui non è successo perché il regista ha manipolato il testo non solo con competenza, ma con intelligenza; si è chiesto se ciò che c’interessa è la Francia d’una volta o noi stessi, anche se riflessi in una trama non moderna. Non ci stupisce allora che i personaggi rilascino interviste col microfono e nemmeno che Arpagone nasconda il suo denaro dentro un nano da giardino e lo calcoli perfino col suo inseparabile convertitore in euro! È il nostro tempo messo alla berlina, in modo un po’ grottesco. La casa del tirchio pare una catapecchia, eppure pullula di ninnoli di pessimo gusto, a cui si fa un complimento definendoli kitsch…, però costano poco, o non costano affatto! Come stridono, fra loro, le scene e i costumi d’epoca di Savary e Michel Dussarrat…

L’allestimento offre poi diverse chicche, come la moviola fra il primo e il secondo tempo: i personaggi, come in un film, ripetono gesti e battute. Si riprende a girare poco prima dell’ultimo ciak. Il ritmo è torrenziale, ma il primato spetta al finale concitato, esasperato, dove le trovate si accavallano in stile "Hollywood Party". L’epilogo è annunciato da un cartello, quasi fossimo a un incontro di boxe o in uno studio televisivo, con un nano che ci sfila davanti. È il momento dell’agnizione ed è anche il più scontato, istituzionalizzato nella commedia, perché ribadisce che tutto è lecito purché si torni alla normalità. Il riccone di turno riconosce i propri figli permettendo le loro nozze; schernire più del dovuto questo punto significa scardinare tutto. Savary, del resto, proviene dal teatro di strada, dove è rimasto a lungo con la sua compagnia "Le Grand Magic Circus et ses animaux tristes". Rivisita i classici, li rigira, da "Il borghese gentiluomo" a "Tarzan", a "Robinson Crusoe". E adesso è alle prese con la "Carmen" di Bizet.

Buona la performance del cast italiano, all’altezza di quello francese della versione originale. Su tutti spicca Haber-Arpagone, animale da palcoscenico che rapisce il pubblico tra un sussurro, un urlo e un movimento d’anca. Ma non vanno dimenticati Fulvio Falzarano (Mastro Simone e Commissario), Simona Marchini (Frosina) e la simpatia del nano Carlos Pavlidis nei panni di Merluzzo.

Speriamo che il pubblico, entusiasta della pièce, abbia gustato ogni dettaglio. Gli attori si muovevano di continuo e al Sociale, si sa, la visuale è un po’ un problema. Su quanto si sia visto dai palchi laterali preferiamo non scommettere…

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