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Alto Adige: si può parlare di apartheid?

In una lettera pubblicata su Questotrentino del 9 febbraio (Sudtirolo: macché apartheid!), Gunnar Ceccato criticava l’uso che io faccio del sostantivo "apartheid" per descrivere quel sistema di regole che attualmente presiede ai rapporti tra i gruppi linguistici in Alto Adige/Südtirol.

Effettivamente il termine è forte, poiché ricorda la segregazione razziale del vecchio Sudafrica. E secondo Ceccato sarebbe utilizzato a sproposito, per dipingere la SVP come un partito razzista, al pari di come certa sinistra, anni addietro, bollava come fascista ogni suo avversario.

Ringrazio Ceccato per la critica, alla quale replico volentieri. Anzitutto, chiarisco che ritengo la SVP un partito di solide tradizioni democratiche: è ben vero che molti suoi atteggiamenti fanno storcere il naso, ma su questo punto – concordo con Ceccato – la SVP non è molto diversa dalla Democrazia Cristiana di un tempo.

In secondo luogo, va chiarito anche che il sistema della separazione tra i gruppi linguistici in Alto Adige/Südtirol è nato dall’esigenza di salvaguardare l’identità del gruppo di lingua tedesca: un obiettivo legittimo e condivisibile, poiché le diversità sono una ricchezza per tutti.

Infine, va senz’altro preso atto che questo sistema ha contribuito a garantire la pacifica convivenza tra i gruppi linguistici: un risultato straordinario, soprattutto se paragonato con quanto accade anche in civilissimi Paesi europei.

Premesso questo, si può disquisire circa l’opportunità di utilizzare la parola "apartheid" riferendosi alla provincia di Bolzano, ma quel termine rimane corretto. Apartheid, infatti, letteralmente significa separazione, non razzismo. E che il sistema altoatesino sia caratterizzato dalla rigida separazione tra i gruppi linguistici, giusta o sbagliata che sia, è innegabile. A poco serve, per negare l’evidenza, sostenere che quel sistema è imperfetto, portando ad esempio il fatto che qualche bambino tedesco frequenta le scuole italiane, o che vi sono italiani che al censimento si dichiarano tedeschi.

La sostanza è che la stragrande maggioranza dei cittadini dei due maggiori gruppi linguistici vive in camere stagne: negli asili, nelle scuole, nell’accesso al pubblico impiego, nelle lotte sindacali, nell’assegnazione delle case popolari, fino alla politica. E chi governa la Provincia di Bolzano, oltretutto, vive le imperfezioni del sistema, ogni pur piccolo travaso tra i due maggiori gruppi, con plateale insofferenza.

Se è senz’altro vero che questo sistema ha contribuito sino ad oggi ad evitare il conflitto tra i gruppi linguistici, è altrettanto innegabile che abbia comportato un prezzo elevato sul piano dei diritti individuali. Chi non si dichiara al censimento è escluso dalla possibilità di avere un lavoro nell’ente pubblico, o di vedersi assegnare una casa popolare, o di esercitare i propri diritti politici candidandosi alle elezioni. Ai figli delle "famiglie miste" è poi negato anche quel diritto all’identità in nome del quale si regge l’intero sistema, dovendosi incasellare, sin dalla scelta della scuola e poi al censimento, in uno dei gruppi prefissati.

Sia chiaro: se l’alternativa è Belfast, questo prezzo è senz’altro congruo. Oggi però la domanda da porsi è: il pericolo di conflitto tra i gruppi linguistici è ancora tale da giustificare la rinuncia ad importanti diritti individuali?

La risposta è no. Trent’anni di pacifica convivenza, il rafforzamento dell’autonomia provinciale e soprattutto l’integrazione europea, hanno creato le condizioni per passare dalla tregua alla pace. L’apartheid non si giustifica più: in nome di cosa la provincia di Bolzano dovrebbe rimanere ancora una democrazia figlia di un dio minore?

Si può anche non essere devoti a San Langer, si può anche essere – come il sottoscritto – estimatori di Durnwalder e sinceramente amici della SVP: ciò che conta è comprendere che quel sistema è giunto al capolinea. Metterlo alla berlina, utilizzando il termine (tecnicamente corretto) "apartheid", è un modo efficace per aiutarlo a riformarsi. Prova ne sia il fatto che ne stiamo discutendo.