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QT n. 17, 12 ottobre 2002 Servizi

Il generale: “Non siamo preparati”

Intervista al generale Franco Angioni, comandante delle truppe italiane in Libano, oggi parlamentare.

L’on. Franco Angioni, eletto nelle liste dei DS, è più noto come generale, comandante delle operazioni che hanno visto, dal 1982 all’84, i nostri soldati impegnati in Libano. Sul nuovo intervento di truppe italiane in Afghanistan, parla soprattutto da tecnico.

Il generale (e onorevole) Franco Angioni.

"Il 7 novembre dello scorso anno il Parlamento approvò – con soli 35 voti contrari – l’invio di truppe italiane in Afghanistan. Oggi non è cambiata la volontà politica di collaborare nella lotta internazionale al terrorismo, bensì il compito delle truppe italiane".

Vale a dire?

"Non si tratta più di intervenire con truppe di terra nella fase successiva all’eliminazione del nemico, con compiti di scorta e supporto alle organizzazioni civili e umanitarie. Ora il compito è quello di eliminare il nemico. E infatti è cambiata anche la composizione: allora erano autoblindo Centauro, adatte a scortare, non a snidare; ora si tratta di fanteria leggera con compiti di ‘interdizione d’area’, che vuol dire, in una zona molto vasta, affrontare i guerriglieri nei loro nidi, ingaggiare il combattimento, inseguirli."

E quindi, perché il vostro no?

"Alcuni hanno detto no pregiudizialmente, perché sono contro tutte le operazioni militari. Altri perché si tratta di sostituire truppe che verranno impegnate in Iraq, guerra a cui siamo contrari. Altri invece – e io sono tra questi – perché, ferma restando l’adesione politica alla lotta contro il terrorismo, riteniamo i nuovi compiti non idonei alle possibilità attuali dell’esercito italiano. Quindi all’invio di truppe, ma no al cambiamento dei compiti. Noi, di snidare e inseguire i guerriglieri, non abbiamo le capacità tecniche."

Insomma, non è un discorso politico, ma esclusivamente tecnico.

"Il nostro attuale supporto all’azione dell’Onu nelle zone a rischio moderato è importante. Non va disprezzato. E non dobbiamo metterci a fare quello che non siamo in grado di fare. Io in Libano ho comandato 2.300 uomini in una attività prevalentemente difensiva; in più, però, disponevo degli incursori per i compiti più impegnativi ad alta intensità. Oggi un soldato delle forze speciali è una specie di albero di Natale, per gli equipaggiamenti che indossa: collegamento satellitare, radio personale, due armi da fuoco, tuta ignifuga, etc.; e un addestramento avanzato di almeno 3-4 anni. Se vogliamo avere questo tipo di truppe, bisogna investire, cioè spendere. Con la difesa che assorbe solo l’1% del bilancio statale, certe cose non si possono fare. Dobbiamo capire che le nostre possibilità di azione sono condizionate dai nostri limiti tecnici".

Ma nel vostro no, non c’è anche una critica a come è stato portato avanti il compito dagli americani?

"La critica c’è: su alcuni bombardamenti, sui rapporti con i civili, sul trattamento dei prigionieri. Però queste critiche parziali, a mio parere, non inficiano il risultato positivo di aver abbattuto un regime oscurantista e oppressivo come quello dei Talebani. E sulla necessità che la lotta al terrorismo abbia anche un versante militare."