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“Buongiorno, notte” e il dibattito su Moro

Il film di Marco Bellocchio, che proprio perchè non è una ricostruzione, suscita emozioni e dibattito.

Ci sarebbe da chiedersi quali sono, oggi, i luoghi deputati a scrivere la storia: i manuali, le università, le commissioni d’inchiesta, la stampa… Tutti questi, certo, in un confuso e confondente mix che non chiarisce quando la storia vada effettivamente riscritta. Ma tante volte il cinema, con le sue immagini, riesce a sbaragliare la concorrenza, e creare un dibattito "storiografico" forte. Rispetto ai testi scritti, il cinema può infatti contare sulla nota, collaudata, "forza delle immagini" e battere, oltre che sulle corde razionali, anche, in contemporanea, su quelle emotive.

Aldo Moro prigioniero delle Brigate Rosse.

Stiamo pensando a "Buongiorno, notte" e a tutta la discussione che ne è seguita: sostenitori della fermezza e della trattativa, ammiratori e detrattori del film, quelli che "le BR non erano così stupide", quelli che "le BR non erano così buone", e ancora le voci "Aldo Moro nel film sembra un santo - e non lo era" in dissenso con i laudatori dello "splendido ritratto della prigionia del leader DC". Insomma, un gran parlare. Non solo sui giornali, visto che il dibattito sembra coinvolgere chiunque abbia visto il film, anche persone che non hanno vissuto in diretta quei giorni del 1978.

Già questo, per il film di Marco Bellocchio, sembra un gran merito. Il problema, però, forse, è un altro. Premettiamo: esiste un cinema politico che si propone di leggere o rileggere fatti realmente accaduti, basandosi su documenti, testimonianze, ricostruendo gli ambienti, cercando nelle facce degli attori somiglianze o tracce dei protagonisti della storia o della cronaca. Gli esempi italiani più nobili sono forse attribuibili a Francesco Rosi ("Salvatore Giuliano", "Il caso Mattei"); ma, tanto per non allontanarsi troppo da Venezia 2003, basta pensare al film di Paolo Benvenuti in concorso, "Segreti di Stato", uscito in contemporanea al libro "Fandango" che contiene tutta la documentazione da cui è stato tratto il materiale per il film, una rilettura della strage di braccianti a Portella della Ginestra. Se ne è parlato per qualche giorno, si sono contestate alcune ricostruzioni, alcune ipotesi complottiste, alcune dietrologie troppo spinte. Anche un altro film recente sul caso Moro, "Piazza delle cinque lune" di Renzo Martinelli, si era prestato allo stesso gioco ed esposto alle stesse accuse.

Ci sembra, semplicemente, che Marco Bellocchio non abbia fatto questo genere di film. Bellocchio è partito da un’epocale tragedia italiana, ma ha voluto filtrarla, vederla con occhi diversi, proporre non la verità, ma una ricostruzione volutamente parziale: una rappresentazione. Lo si critica per mancanza di verosimiglianza, ma ci pare che il reale non l’abbia mai inseguito, che abbia rinunciato alla descrizione per puntare tutto sull’evocazione, sul ripescaggio di apprensioni e angosce - ed è un ripescaggio anche per chi non ha vissuto in prima persona i giorni del sequestro.

Il guaio è che la forza del racconto per immagini - la protagonista, i suoi sogni in bianco e nero, la musica, l’uso emotivo della messa in scena… - è talmente coinvolgente che il film fa paradossalmente venir voglia proprio di "verità".

Se di Portella della Ginestra, anche dopo il film di Benvenuti, non si è più di tanto tornati a parlare, su Moro e i suoi carcerieri il dibattito continua e divide: "Buongiorno, notte", semplicemente, coinvolge. Il nostro sguardo è quello di Chiara, la brigatista che vede Moro di nascosto, spiando dal buco della serratura. Così il film è uno sguardo clandestino, non ufficiale: una proiezione, come quelle che vede Chiara - telegiornali, sogni, in un immaginario popolato di film sovietici.

La presenza così preponderante del sogno e dello "specchio" (la televisione) riconduce tutto il film a una dimensione di dialogo onirico tra immagini e immagini. Marco Bellocchio ha sempre fatto un uso forte della psicoanalisi nei suoi film, anche lasciandosene scappare di mano il controllo, nella sua produzione dei primi anni Novanta. Qui, l’uso della psicoanalisi (a partire dall’uccisione del "padre") è ponderato, maneggiato con cura.

Se si cerca, quindi, di dimenticare la cronaca, ci si può accorgere di altre suggestioni presenti nel film: non ci riconosciamo almeno un po’ in quei protagonisti della storia che sono costretti a guardare la televisione per capire quello che sta succedendo veramente? Siamo tutti illusi di partecipare, dipendenti dalla rappresentazione mediatica della realtà: sono informato, impegnato, quindi partecipo. Lo specchio della televisione forse per la prima volta con il caso Moro ha iniziato a fagocitare il reale, a volerlo al suo servizio.

Alla fine, rimane la sensazione che questa ricostruzione che non vuole ricostruire sappia illuminare in profondità quella vicenda. La riuscita del film vive tutta di questa contraddizione, solo apparente, se davvero nel sogno si trovano tutte quelle verità con le quali da un secolo ci perseguita il dottor Freud.