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“Il ritorno”

Il film del russo Andrej Zvyagintsev, vincitore dell'ultimo Festival di Venezia, bello ma sopravvalutato: troppo ricercato, una prova di stile troppo compiaciuta.

Il ritorno, film russo di Andrej Zvyagintsev, racconta la storia di un padre che dopo anni torna dai suoi due figli e li porta in viaggio verso una destinazione sconosciuta. Il film ha una fotografia molto bella, decolorata, virata al blu; le inquadrature sono sempre poetiche; è un film coraggioso, perché punta diritto al racconto alto, morale, simbolico; i due attori-bambini sono ottimi; le migliori sequenze (il tuffo dal trampolino) ricordano i grandi momenti del cinema sovietico; i paesaggi freddi fanno la gioia degli occhi dello spettatore e - se esiste - dell’APT del lago Ladoga, tra Russia e Finlandia.

Riconosciuti in queste cinque righe i meriti del film, proviamo, smontando un paio di meccanismi, a spiegare perché la sua iscrizione nell’albo d’oro di Venezia ci è sembrata esagerata: il premio come miglior opera prima era meritatissimo e sarebbe bastato.

Partiamo dallo stile. Ci piacciono molto i film "girati bene". Ci piacciono le inquadrature ricercate, la fotografia studiata, i movimenti di macchina eleganti. Per questo, siccome ci piacciono molto, vorremmo che lo stile fosse vincolato a una densità di contenuti; che lo sguardo "bello" fosse anche "profondo"; lo stile calcato sulla storia; il modo della narrazione un tutt’uno con il racconto stesso.

"Il ritorno" ha tutti i difetti che potrebbe avere un saggio da massimo dei voti e lode in una scuola di cinema. Il regista si innamora delle sue inquadrature, esagera in simbolismi, metafisiche, mitologie, si perde in quello che si chiama estetismo.

Facciamo un primo esempio: all’inizio del film c’è una citazione del Cristo morto di Mantegna. Il padre torna a casa e va a dormire, i due figli sbirciano da dietro una porta e lo vedono sul letto nella posizione del Cristo morto. Non è la prima volta che troviamo quel quadro in un film: c’è già - almeno - in "Mamma Roma" di Pasolini e ne "Il bacio di Giuda" di Paolo Benvenuti. In Pasolini, abituato a costruire molte delle sue inquadrature a partire dalla storia dell’arte, la citazione lascia attoniti. Il giovane protagonista è un Cristo proletario, condannato a morire in un letto di contenzione. La cosa non è banale come sembra a leggerla scritta: è una scelta che scorre coerente lungo il film, anzi, di più, è coerente con tutto il cinema di Pasolini e con la sua vita. In Benvenuti, la citazione lascia perplessi. In un film peraltro teoricamente ben fondato sulla necessità teologica dell’elezione di Giuda al tradimento, Gesù, all’inizio del film, appare sdraiato, seminudo, inquadrato con i piedi in primo piano. Mantegna, appunto. Ma qui la citazione cosa vuole dire? Poco o niente. E’ una citazione, come si dice, "fine a se stessa".

Zvyagintsev sembra aver trovato una via di mezzo tra la rigorosa coerenza di Pasolini e l’inutilità di Benvenuti. Quell’inquadratura vuole dire qualcosa: che il destino di quel padre è segnato, che di poveri cristi è pieno il mondo, che i poveri cristi si nascondono anche sotto le burbere apparenze di un padre che non ride mai. Il messaggio non è così profondo, ma neanche del tutto grossolano. Cosa c’è allora in quell’inquadratura che suona stonato? I tempi e il modo con cui il regista dice quello che vuole dire. Il momento è sbagliato, a inizio film. Già per questo indispone. Messa così, fa fare al regista la figura dello scolaro che alza sempre la mano. Certe citazioni bisogna maturarle, e meritarle. Poi, il modo: se lo scopo era dirci che il padre farà un brutta fine e che in fondo è una vittima anche lui, c’erano modi meno facili per dirlo. Così è davvero esplicitare troppo, e troppo presto.

Tutto il film, d’altra parte, è immerso in riferimenti neo-testamentari e cristologici - ultime cene, pani spezzati, bibbie in soffitta, deposizioni… - sul modello inarrivabile di Andrej Tarkovskij. Per tutto il film Zvyagintsev insegue il fantasma di Tarkovskij immergendosi nella materia preferita del grande regista di "Stalker": l’acqua. Ma qui non è più un problema di citazioni. Per fare un esempio basso, viene in mente il calciatore Cassano: bravo e promettente, però antipatico a tutti perché negli allenamenti fa come Maradona, prende in giro i compagni dall’alto della sua superiorità tecnica. I tunnel ai compagni di squadra si possono anche fare, ma prima, almeno, devi fare un gol di mano all’Inghilterra in un mondiale. Vogliamo dire: nemmeno un regista dotato può permettersi di rifare Tarkovskij al film d’esordio. Si può rendere omaggio, dichiarare l’ispirazione, ma poi bisogna riuscire a fare il proprio film.

Un esempio conclusivo: i titoli di coda scorrono sopra le fotografie che uno dei due bambini avrebbe scattato durante il viaggio con il padre. Lungo il film, lo si vedeva prendere qualche foto qua e là. Bene. Ci fanno vedere quelle immagini, e vediamo che sono foto da mostra d’arte, un bianco e nero da grande fotografo, con il colore trattato, tecnicamente perfette. Allora: le avrebbe scattate un bambino? Qualcosa, evidentemente, non funziona neanche qui. Mentre gli spettatori se ne vanno, questa scelta rende ancora evidente quanto l’incontrollabile bisogno di bellezza stilistica entri in conflitto con la necessità superiore di dare senso alla storia.

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