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Ricordo di Ivan Illich a un anno dalla morte

Antonio Marchi

La notizia della sua morte l’ho appresa in un tragico momento di preparativi di guerra annunciata e sempre più imminente. Speravo (il popolo della pace sperava) che quel crimine non si sarebbe compiuto e morti e rovine sarebbero stati risparmiati ad un popolo umiliato ma vivo. Illich portò una chiave di lettura di quegli avvenimenti a Città di Castello, dove si trovava ospite del periodico "Altrapagina": "La guerra contemporanea, questa collaborazione tecnologica all’apocalisse è profondamente implicata nell’idea che il male possa essere estirpato. Il male non si può togliere dal mondo, ma cinque miliardi di esseri umani in esubero si possono eliminare".

Ivan Illich è stato un pensatore critico, ribelle, un gigante del pensiero sociale moderno. Amava essere definito uno storico, perché era dalla storia che traeva le sue analisi per dimostrare la "controproduttività" delle grandi istituzioni moderne, che generano il contrario di ciò che promettono. Della modernità denunciava la tecnostruttura che confisca le capacità naturali del vivere, costringe ad appaltarsi a competenze specialistiche, quantifica l’essere umano in una somma di bisogni e lo misura in termini di produttività. Il nostro modo di vita industriale e predace - diceva - è irrimediabilmente condannato, difficilmente potrà durare ancora mezzo secolo. Il petrolio sta finendo e l’aumento della temperatura terrestre per l’inquinamento devasterà acque e terre. Se vorrà sopravvivere l’umanità dovrà cambiare vita, smettere di divorare energia, non produrre sempre più merci, non confondere lo sviluppo con la crescita del PIL, abbandonare il mito della produttività. Questo modo di vivere ci ha tradito, ci ha estraniato dal mondo, ha distrutto la natura e ingoiato miliardi di persone in inconcepibili astrazioni e il dover rinunciare è da tutti considerato una catastrofe e non invece un rimettere i piedi per terra e avere una vita più ricca e felice.

In una lettera ad un amico scritta nel 1992 e letta al suo funerale diceva che la generazione a cui apparteneva aveva vissuto la rottura col mondo e visto l’esilio della carne dalla trama della storia, che il mondo nel quale era nato era svanito nel non senso e che la sua memoria non si era depositata come le rovine del passato negli strati inferiori della terra, ma era scomparsa come una riga cancellata dalla memoria del computer. Parlava della morte e della sua morte, che voleva non fosse "una fine mortale", ma un "morire nel senso intransitivo", con i piedi sulla terra, celebrando "la gloria del mondo reale attraverso il nostro stesso addio ad esso". Voleva una morte che serva a quelli che restano e non una morte che si subisce, che arriva da fuori come un fulmine. Alludeva ad un morire che sia un fare, un decidersi, un compiersi. Come non associare tutto ciò ai delittuosi eventi di questi tempi in Iraq e altrove? La guerra è la massima organizzazione della morte, e nello stesso tempo è la negazione del morire. Come stupirsi che qualcuno, lanciandosi con un’auto imbottita di esplosivo contro un carro armato o un edificio abitato, decida di non farsi dare la morte, ma di morire uccidendo? E’ la stessa differenza che c’è tra il vivere e l’essere fatti vivere per consumare. Abitare, non stare in una scatola prefabbricata come abitazione. Educarsi, non essere parcheggiati in una scuola scambiata per educazione. Informarsi, non essere "fruitori" e bersaglio dell’informazione. Curarsi, non consegnarsi al potere terapeutico della sanità.

Illich è stato un grande paladino della cultura dei popoli, dei loro saperi, dell’arte del vivere praticata anche nelle condizioni più povere ma non per questo miserabili. Da anni non leggeva più i giornali. L’attualità quotidiana gli appariva fatua ed inconsistente, cosi come i "media". Non rilasciava interviste e non accettava il ruolo del conferenziere che "dà la linea". Piuttosto cercava il dialogo attraverso la ricchezza delle osservazioni e delle domande. Un maestro che svolge con gusto una funzione "didascalica" e non vuole trasformarsi in tuttologo, per quanto vari e ampi siano i suoi campi di indagine.

La sua idea forza è che, se non in particolari eventi clamorosi, non esiste la "scarsità". I bisogni umani sono commisurati a ciò che la terra può offrire quantitativamente e qualitativamente, con una grande ed irripetibile varietà da luogo a luogo. "La dimensione naturale dell’uomo" dunque. Dove per "naturale" si intende non una nozione "biologica" ma storica. Invece la necessità di scavalcare tempo e spazio con le tecnologie della velocità e della comunicazione, gli squilibri... tutto questo produce il frutto velenoso di rotture, di separazioni, di definizione di confini tra "proprio" ed "alieno", tra lingua e dialetto, tra bene d’uso e bene di scambio, tra ambiente e risorsa, tra norma e devianza, tra salute e malattia, tra comunità ed istituzione.

L’uomo che conosciamo è l’uomo "economico", che pensa in base al principio di utilità, in base al rapporto costo-profitti. Ma esiste un’altra umanità, esistono, altri modi di pensare la convivenza basati sul dono, sulla comunità, sull’autosufficienza, sulla solidarietà.

Queste possibilità sono state indubbiamente sconfitte. Ma la loro sconfitta non è prova della loro non verità. La storia non è infatti un tribunale. La Storia è il dominio del più forte, spesso del più violento.

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