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Burundi, Africa

Renzo Petraglio

Cosa stia capitando in Burundi è difficile dire. Probabilmente tutto e il contrario di tutto.
Cose sublimi e angoscianti.

Penso, ad esempio, a una donna che ho incontrato a Bujumbura, in uno di quegli incontri che il "Centre Jeunes Kamenge" organizza per le associazioni, per incoraggiarle, per accompagnarle nel loro cammino di formazione. La donna, sulla quarantina, musulmana, parla un francese un po’ stentato. Si chiama Maria, "come la mamma di Gesù", aggiunge in tutta semplicità.

Maria lavora in una associazione di vedove. Preso da tristezza, le chiedo di cosa è morto suo marito. Non risponde, si limita a un gesto: passa la sua mano di traverso sul collo. Un lungo silenzio. Il mio disagio per averla spinta a rievocare il marito e la sua fine: sgozzato.

Maria è una donna vedova, vedova come tantissime in un paese dove la guerra la fa da padrona. Eppure, dopo un periodo di smarrimento ("credevo di impazzire", mi dice), ha trovato al fondo di se stessa e della sua solitudine la forza per trasformare la sua esperienza della morte in germe di vita. E ha dato vita all’associazione delle vedove, di donne che osano ancora lasciarsi prendere dalla vita, dal bisogno di dedicarsi ai figli piccoli, per proteggerli, per sfamarli, per incoraggiarli ad aprirsi alla vita.

Maria la musulmana, un po’ come la Ruth moabita di cui parla la Bibbia. Donne qualsiasi in un paese devastato come al tempo di Ruth, quando il paese era senza una guida e solo sporadicamente si affacciavano alla ribalta uomini di una certa rilevanza, alcuni dal nome quasi del tutto cancellato. "Era il tempo - così si legge nella Bibbia - in cui non c’era un re in Israele, e ciascuno faceva come meglio gli pareva" (Giudici 21,25).

Donne qualsiasi, Maria la musulmana e Ruth la moabita, vedove entrambe, entrambe emarginate e costrette alla fuga, una dal quartiere di Kinama, da Moab l’altra. Eppure queste donne diventano straordinarie nel loro modo di affrontare la sfida di un destino impietoso. Donne lottatrici: hanno la morte in cuore, ma sanno aprirsi e aprire altre, e altri, alla vita. E’ per queste lottatrici che vale la pena di darsi da fare, perché per loro, sulla loro terra, si dischiuda la pace, perché la loro passione per la vita - e non la violenza e il bisogno di vendetta - contagi un quartiere intero, le colline attorno a Bujumbura, il Burundi e l’Africa in subbuglio.

E’ per queste donne che vale la pena di mobilitarci. Per queste donne e anche per altri. E’ per i ragazzi di Kamenge, che hanno trovato un neonato in una latrina, e si sono presi cura di lui: l’hanno portato da un’infermiera, gli hanno cercato una famiglia dove potesse crescere, e solo dopo ne hanno parlato con il responsabile del "Centre Jeunes Kamenge", e ne hanno parlato come di una scelta vissuta spontaneamente. E’ anche per questi ragazzi, che non lasciano morire un neonato, che vale la pena di mobilitarci.

Ma in Burundi ci sono anche esperienze diverse. Ragazzi giovanissimi che imbracciano un kalashnikov e si arruolano in una banda o in un’altra: ragazzi cui è stata rubata l’infanzia e sono cresciuti tra gli spari e hanno trovato riparo - a chi è andata bene - tra i bananeti. C’è anche il soldato che stupra una donna anziana dicendole: "L’AIDS l’ho avuto a pagamento con una puttana, ma a te lo do gratis". E anche davanti a queste vite devastate non possiamo non mobilitarci. Anche per loro e a loro favore dobbiamo mobilitarci.

Più volte ho usato il verbo mobilitarci, e non l’ho fatto a caso. Certo, è un verbo che può far nascere dei malintesi, può suggerire guerra e violenze. E allora, prima di concludere, permettetemi di ricordare un generale che ha ricevuto l’appellativo di "grande", Pompeo il Grande, Pompeo Magno. Era un uomo di guerra, e la situazione - gli anni 60 del primo secolo avanti Cristo - era tutt’altro che idilliaca. Dal Vicino Oriente bande di pirati minacciavano il Mediterraneo e l’entroterra. Erano come le bande nel Burundi di ieri e di oggi, erano come i terroristi che sono sulle labbra di tutti i politici. Quanto a Pompeo, cui i Romani - così scrive Plutarco - avevano affidato "un potere assoluto e universale, e sottratto a ogni controllo" nella lotta contro i pirati; quanto a Pompeo, dicevo, "rifletté sul fatto che l’uomo per natura non nasce e non è un essere asociale e selvaggio, lo diventa quando la pratica del vizio lo fa degenerare contro la sua natura; tuttavia può essere addolcito da nuovi costumi e da nuove forme di residenza e di vita. Perciò Pompeo [...] decise di far gustare ai pirati una vita civile, abituandoli a stare in città e a coltivare la terra" .