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QT n. 1, 15 gennaio 2005 Servizi

La fede non è un generico “vogliamoci bene”

La Chiesa nel mondo odierno. Ne parliamo con don Renato Pellegrini.

Passate le feste natalizie, per la liturgia cattolica ricomincia il tempo ordinario, cioè il faticoso tran tran quotidiano in cui ciascuno ritorna al "lavoro usato". In questi periodi la crisi e la difficoltà si sentono maggiormente, anche se quest’anno il Natale ha portato davvero qualche sorpresa. Senza perderci in auto-incensamenti (anche se dedicare la copertina e molte pagine interne di Questotrentino alla crisi della Chiesa trentina alla vigilia di Natale crediamo sia stato tempestivo e proficuo), si deve evidenziare come da più parti del mondo cattolico – ma anche di quello laico – aumentino gli appelli e le prese di posizione affinché la Chiesa cambi linguaggio e atteggiamento.

Il Duomo di Trento.

La sferzata più dura che ha fatto sobbalzare non pochi prelati è venuta dall’editoriale natalizio di Paolo Ghezzi che, senza giri di parole, scrive sull’Adige: "I cattolici dovrebbero interrogarsi se davvero non sia questo il pericolo mortale che corre oggi la comunità di coloro che si dicono cristiani: l’insignificanza della loro testimonianza... Se la Chiesa sa solo ripetere parole annoiate, non profetiche, e riti svuotati di senso e di gioia... resteremo con la nostra aridità di post-credenti e post-dubbiosi. Tiepidi e dunque meritevoli di essere sputati fuori, come tuonava lo scrittore dell’Apocalisse".

Molti non hanno digerito una manifestazione così aperta e autorevole di dissenso, rispolverando categorie di nuovo alla moda come "cattocomunista" o similari. Al piglio profetico del direttore de l’Adige è preferito un silenzio sussiegoso secondo l’ordine di lavare in casa i panni sporchi, di salvare il salvabile, di serrare le fila per una strenua difesa dell’esistente. Magari appoggiandosi ai nuovi "atei devoti" o a chiunque possa essere considerato "dalla nostra parte": mentre chi frequenta le chiese ed ha come riferimento la figura di Gesù e le parole del Vangelo ma osa svolgere apertamente critiche in sedi giudicate non opportune, viene tagliato fuori. Ma se nella Chiesa trentina si fa molta fatica a discutere, a parlare apertamente dei problemi, se i luoghi di confronto scemano, sarà compito dei cosiddetti laici (nel doppio senso del termine) tenere viva l’attenzione.

Continuiamo con questo spirito la nostra inchiesta sentendo il parroco di un piccolo paese. Don Renato Pellegrini, parroco in val di Rabbi da un ragguardevole periodo di tempo (sedici anni!), è molto disponibile e, per esigenze logistiche, viene a trovarci nella nostra sede. Anche lui, come don Rattin, ci colpisce dicendo di aver patito spesso solitudine e lontananza se non incomprensione dai fedeli e dai vertici diocesani. "Anch’io ho provato questo senso di solitudine, che in alcuni momenti è proprio duro da sopportare. Ho l’impressione che un sacerdote sia mandato in una parrocchia, o altrove, e poi venga abbandonato. Quando poi c’è da tappare un altro buco, allora ti chiamano e ti spostano in un altro luogo, ma senza guardare se in questo spostamento c’è una logica, se va bene o se va male. Questo non interessa. Il rapporto con i parrocchiani? Come prete vai bene se non susciti alcun problema o se valorizzi il loro lavoro; se porti un’istanza critica non te lo perdonano. Per fortuna io ho un gruppo di persone che mi stanno vicine, ma nella stragrande maggioranza dei casi regna l’indifferenza."

Don Renato Pellegrini.

Don Renato non ama i giri di parole o i ragionamenti filosofici o sociologici e ci parla della realtà sotto i suoi occhi senza infingimenti. "Nella mia esperienza vedo che c’è un forte appiattimento sul desiderio di denaro, probabilmente scaturito da una mancanza culturale davvero preoccupante. Parlo non solo della cultura generale ma anche di quella religiosa. Si cerca un cristianesimo accomodante, ridotto a un semplice e generico "vogliamoci bene" o costruito secondo le proprie esigenze, mescolandolo con altre fedi e credenze. Io soffro per questo: molti vengono nelle Chiese, sentono le stesse parole del Vangelo, ma quelle parole non hanno incidenza perché i pensieri della gente sono rivolti altrove. Mi sembra di essere una persona che annuncia, senza però essere ascoltata da quasi nessuno. Mi domando chi possa oggi dirsi davvero cristiano".

Dio è stato cacciato da Mammona?

"Senz’altro. Qualcuno dice che la Chiesa ha ancora una sua forza, una sua presenza, ma in realtà la sua incidenza è davvero bassa, perché i cristiani sono già una minoranza. La Chiesa dovrebbe essere più missionaria nel senso prima di tutto di condividere la vita con le persone, poi proporre per chi lo desidera (saranno necessariamente piccoli gruppi) il messaggio di Cristo. Non si può fare finta che se la chiesa è piena alla visita pastorale o a Natale, siamo di fronte al trionfo del cristianesimo".

In questo senso don Renato condivide in pieno il pensiero che don Piero Rattin ci esponeva nello scorso numero: "La Chiesa deve essere profetica, cioè di minoranza". Da molti prelati queste affermazioni sono considerate rinunciatarie e disfattiste, frutto di un cedimento al relativismo. Ci sembra invece che solamente partendo dalla verità dei fatti la Chiesa potrebbe recuperare una reale incidenza sulla società. "I cristiani - continua don Renato - devono essere una minoranza consapevole, fatta di persone che tentano seriamente di vivere il Vangelo, capaci di poterne parlare liberamente e, per quanto possibile, secondo il messaggio originario di Gesù: questa situazione oggettiva non viene accettata e si cerca sempre un puntello con il potere politico o con quello economico".

Quali sono le caratteristiche del messaggio originario, i temi che sono più attuali?

"I credenti che vogliono vivere del Vangelo, devono avere innanzi tutto un grande rispetto verso il mondo e verso le diversità delle altre sensibilità religiose, delle altre opinioni, entrando in dialogo con tutte queste realtà. La povertà, il perdono, la pace questi sono i temi. Una pace che non sia evitare solo le guerre ingiuste: pace vuol dire "no alla guerra" e basta. E povertà vuol dire condivisione con gli ultimi, sapersi incontrare con loro. Sono gli ultimi dal punto di vista economico, i malati psichici, quelli di Aids. Una Chiesa, una comunità cristiana deve porre attenzione a queste realtà, perché molte altre cose il mondo se le porta avanti da solo. Quello che manca oggi nei credenti è proprio l’attenzione a questi specifici ambiti, mentre c’è un adeguarsi alla mentalità del mondo. Ma chi sostiene questo non è abbastanza aiutato dalla Chiesa".

Ma questi ambiti non sono una peculiarità del cristianesimo; in passato il simbolo del pacifismo e del dialogo è stato Gandhi. Venendo all’oggi, abbiamo molti esempi di solidarietà, come è stato nel caso dello tsunami.

"Il cristiano vive in questo modo perché Gesù Cristo ha vissuto così, ma sappiamo che questi valori sono sparsi in tutto il mondo, questi ideali non sono un’esclusiva dei cristiani. Io, come cristiano, mi occupo di questo perché ho la speranza che Dio, che agisce nel mondo, mi venga incontro qui e poi mi darà una vita futura. Come cristiano sento di incontrare Dio oggi in un atteggiamento di povertà e di perdono, di incontro con gli altri. L’importante è che io tenga presente che tutti, tutti e non solo i cristiani, sono portatori di una grande ricchezza e vivono alcuni valori a prescindere dalla loro fede religiosa".

Il cristiano dovrebbe anche dare speranza al mondo...

"Certo, ma io credo che la speranza possa giungere al mondo solo se la Chiesa riesce a vivere in un determinato modo dicendo che Cristo risorto è in mezzo a noi per cambiare questo mondo: ma se essa si adegua semplicemente ai parametri della ricchezza, del liberismo, della potenza e del potere, non vedo che speranza possa portare".

Questa è, invero, una prospettiva di Chiesa poco praticata, controcorrente rispetto alla posizione maggioritaria che si muove con troppa timidezza proprio negli ambiti che il parroco di Rabbi ha indicato. Facendo l’esempio del perdono: quando le due Simone, una volta liberate dalla prigionia in Iraq, hanno cercato, se non di "porgere l’altra guancia" (non sappiamo se siano cattoliche o meno), almeno di comprendere le ragioni dei loro rapitori, sono state attaccate frontalmente dai giornali di destra, che le hanno anche accusate di aver tradito la loro cultura cristiana solo per il desiderio di conoscere meglio l’Islam. In questo senso si preferisce difendere la propria identità contro l’altro piuttosto che essere cristiani seguendo gli insegnamenti evangelici.

"Il centro-destra vuole difendere simboli vuoti, - commenta don Renato - si schiera con il crocifisso e lo impugna come una spada. Si vuole una religione civile, utile non per diffondere il messaggio evangelico ma per difendersi dal relativismo, dai musulmani, da tutti quelli che non la pensano come me. Per questo si è pronti a fare nuove crociate, magari non cruente ma basate su piccoli gesti di diffidenza e di emarginazione. Nelle valli c’è il senso di una minaccia, un diffuso pregiudizio che aumenta la difficoltà di capire l’altro. La Chiesa dovrebbe insegnare che, se Dio è Padre di tutti, non c’è nessun nemico da abbattere, ma una persona con cui dialogare, magari con cui scontrarsi, ma sempre nel rispetto delle proprie idee e della propria vita."

In generale la Chiesa è preoccupata di una progressiva scristianizzazione della società anche a livello simbolico: per questo si oppone con forza a ogni dibattito sulla presenza o meno del crocifisso o del presepe nelle scuole. Di converso, cercando i mezzi adatti per annunciare il Vangelo, non vuole assolutamente modificare lo statuto dell’ora di religione ed è timorosa di perdere spazio sui media e nella società.

"Don Milani, poiché alcuni suoi alunni della scuola di Barbiana non volevano il crocifisso in classe, non ebbe problemi a toglierlo perché era più importante che gli studenti avessero i mezzi per capire e per fare le proprie scelte, e riuscissero a parlare per non essere imbrogliati dalle persone più dotte. Charles de Foucauld andava dai Tuareg senza alcun simbolo religioso perché egli voleva solamente vivere il messaggio evangelico e dare in questo modo testimonianza anche senza esteriorità".

Ma qualcuno potrebbe dire che in questo modo la Chiesa, almeno come istituzione, non servirebbe più e che il cristianesimo non sarebbe differente da altre visioni laiche.

"Non ho detto mica di abbattere le chiese! Gesù dice che i suoi discepoli devono essere come il lievito e come il sale: e il lievito non ha bisogno di grandi strutture e il sale si deve disperdere e scomparire. E’ vero che storicamente, da Costantino in poi, il cristianesimo si è fondato su una struttura forte di Chiesa che ha mantenuto uno stretto collegamento con la società politica ed economica finendo così per perdere, non sempre ma molto spesso, parte della sua critica al mondo. Su questo punto sono un po’ radicale: per essere cristiani non basta avere determinati credi e fare determinati segni, ma poi non comportarsi di conseguenza. Faccio un solo esempio: i parlamentari italiani che oggi si battono per il crocifisso o per il presepio, dove erano quando approvavano la legge sull’immigrazione? Sono sicuri che la Bossi Fini è una legge guidata dai principi evangelici? Il cristianesimo dovrebbe promuovere dall’interno un fermento che possa portare la speranza di una possibile fratellanza fra i popoli: una Chiesa solamente esteriore che non dà questo tipo di messaggio, basato sul Vangelo, e che si distanzia da quelle parole di Gesù, non avrebbe senso".