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QT n. 1, gennaio 2017 Politichetta

Italia e Trentino: stessa deriva

L’infausta gestione di tutto l’affare della “grande riforma” costituzionale, che ha finito per affossare il governo Renzi, come prevedibile ha lasciato soltanto macerie. Non tanto per la sonora bocciatura referendaria, anch’essa ampiamente prevista e prevedibile, ma per il contesto precedente e per gli strascichi successivi. Tutto cominciò con l’improvvida – anche se forse inevitabile – rielezione di Giorgio Napolitano a presidente della Repubblica, nell’aprile 2013. L’accettazione della riconferma era stata vincolata all’assoluta priorità di varare alcune riforme costituzionali che dovevano essere vergate da una commissione di “saggi” (capitanata dal duo bipartisan Quagliariello-Violante) e poi approvate dalla “strana maggioranza” che aveva portato alla nascita del governo Letta, sostenuto anche da Forza Italia. Tutto franò. L’anno successivo le primarie portarono Renzi alla guida del Partito Democratico: dalla segreteria il passo verso il governo fu brevissimo. Napolitano sostenne la spregiudicata e fulminea ascesa dell’ex sindaco di Firenze, proprio perché vedeva nel giovane rottamatore l’energia necessaria per portare a termine le agognate riforme. Anche da presidente emerito, re Giorgio appoggiò sempre Renzi.

In realtà le riforme costituzionali non erano e non sono la vera priorità dell’Italia. Il ridicolo slogan, ripetuto fino all’ossessione dalla ministra Boschi, per cui “con le riforme l’Italia riparte”, suggerisce un inesistente automatismo tra le modifiche della Costituzione e lo sviluppo generale del Paese. Inseguendo la consacrazione popolare a un referendum perso in partenza, Renzi ha scontentato tutti, chiudendo un occhio di fronte a mali endemici (corruzione, debito pubblico, diseguaglianza sociale) e cavalcando una politica che si potrebbe definire liberista.

Ne abbiamo già parlato diffusamente. La campagna referendaria ci ha regalato il caos politico. Sospesi alle sentenze della Corte Costituzionale, i partiti (escluso forse il Movimento 5 Stelle) non sanno che pesci pigliare. Surreale è quanto accade nel PD. Per giochi interni il partito si era diviso sul Sì al referendum, salvo non pensare alle conseguenze di questa lacerazione. Non esiste, non può esistere, un partito di governo diviso su tutto, in nome di un pluralismo interno falso e ipocrita che serve solo per mascherare l’incapacità politica di guidare il Paese. Perché d’altra parte, priva di qualsiasi visione, la minoranza interna PD voleva sfruttare l’occasione per silurare il segretario premier, che a sua volta non faceva nulla per distendere i toni, arroccandosi sempre di più dentro il suo “giglio magico”.

Ora siamo al paradosso del varo di un governo fotocopia, di un Renzi fintamente da parte a sciare in val Gardena, ma pronto a ritornare per elezioni che vorrebbe si tenessero entro l’estate. Non si è mai visto un segretario di partito praticamente assente – salvo pensare al suo rientro – in una fase decisiva per il partito stesso. La pantomima della proposta di legge elettorale (il Mattarellum ripescato da Renzi, già sepolto dai suoi stessi ex colonelli) dà l’idea di una navigazione a vista e soprattutto di una inquietante distanza dal Paese reale. E poi ci si meraviglia del successo di Grillo.

Al tempo della DC e del PCI si ricordano le riunioni fiume degli organi di partito per analizzare i risultati, fare autocritica, cogliere i segnali, interpretare i mutamenti sociali. Si perdeva anche troppo tempo in queste sedute. Ma almeno c’era il tentativo di comprendere il voto, ascoltare la voce dei cittadini. Oggi nulla. Certo, Renzi ammette la sconfitta, ma resta protagonista. Non “va a casa”. Anzi intriga più di prima. E la minoranza PD? Stesso comportamento, seppur opposto. È l’ora della resa dei conti fra le correnti, non dell’analisi politica.

I partiti non esistono più

In Trentino stiamo assistendo ad una analoga deriva. Era già accaduto che una consultazione nazionale segnasse una sconfitta per le forze politiche al governo in Provincia. Mai però che tutto il Trentino, senza differenze territoriali significative, voltasse le spalle al centro sinistra autonomista, come invece è accaduto al referendum di dicembre. Persino a Trento, persino a Pinzolo (feudo di Olivieri). Solo la Valle di Non e quella di Sole non hanno tradito Rossi e Panizza – che oltre tutto sono stati fra i più preoccupati dell’esito complessivo.

Cosa fa invece il PD? I soliti cervellotici, autoreferenziali e inconcludenti ragionamenti, tutti incentrati sull’appartenenza a questo o quel sottogruppo.

Italo Gilmozzi, segretario del PD trentino

Elisa Filippi, renziana a livello antropologico prima ancora che politico, incredibilmente riesce ad essere soddisfatta per l’esito elettorale. Per la coalizione del centro sinistra ci sono stati “incrementi netti” in termini di voti assoluti rispetto alle europee del 2014. Avanti così allora! E se non ci fossero stati i sostenitori del No interni al partito la “vittoria” sarebbe stata ancora più evidente. Quindi è l’ora della resa dei conti. Siamo alla caccia alle quinte colonne del nemico annidate tra le proprie fila. I maggiorenti del partito, da Borgonovo Re a Olivieri, sono sicuri: è stata colpa loro. Il segretario Gilmozzi è pacato ma fermo: le regole vanno rispettate.

Tuttavia i furori della base (intesa non come elettori, ma come ultime file del personale politico), pronta a chiedere”tribunali speciali” per incriminare i favorevoli al No, non vengono per il momento assecondati. Ma Plotegher, Lorandi, Dorigatti (che si erano espressi apertamente contro la riforma costituzionale) restano al centro della polemica.

Insomma, siamo di fronte a una sconfitta cocente. A un partito che, a livello nazionale, ha perso l’elettorato popolare e quello giovanile. E a livello provinciale ha dimostrato l’assoluta irrilevanza dei vari big locali e della loro attività (quanti voti hanno spostato i vari Olivi, Ferrari, Tonini, Nicoletti, Zeni, Olivieri ecc, tutti prodigatisi nel propagandare il Sì: dieci a testa?).

Ma di fronte a questo non si valuta dove si è sbagliato, si prosegue come se niente fosse, punendo gli eretici interni. Con questo, paradossalmente, si attribuisce alla minoranza una capacità di influenza sull’elettorato semplicemente spropositata. Perché, se le cose stanno così, Olivi lo seguono in dieci, Dorigatti in diecimila, dunque il nuovo leader dovrebbe essere Dorigatti. Ma, lo sappiamo, neppure questi dirigenti della minoranza spostano un voto. Infatti anch’essi non chiedono una nuova stagione fatta di idee nuove, ma propongono una “gestione unitaria”: ancora una volta è la politica ridotta a povere logiche di schieramento, avulse dal mondo esterno.

Esito di queste - si fa per dire - analisi? Tutto è rimandato, in attesa di vedere cosa accade a Roma. Tanto per capirsi: i nostri sono così fuori dalla realtà che per due settimane hanno creduto e fatto credere che il senatore Fravezzi corresse per un posto da sottosegretario o addirittura da vice ministro. Questo, evidentemente, non per le particolari capacità del sindaco di Dro – nato e cresciuto come scudiero di Dellai – ma soltanto per le alchimie politiche dei gruppi parlamentari. Era un miraggio oppure una bufala per riempire i giornali pre-natalizi. Ovviamente, alla prova dei fatti, Fravezzi resta senatore semplice, mentre Dellai, per una volta sotto i riflettori nazionali durante il rito delle consultazioni in qualità di capogruppo di Demo.S (che dovrebbe stare per “Democrazia solidale” ma non siamo sicuri), continua a pontificare, non contando praticamente nulla ma dando lezioni a tutti.

Sono piccoli esempi della disconnessione della nostra “classe dirigente” non solo dalla vita reale ma pure dalle più elementari dinamiche politiche.

Non ci siamo. Lo abbiamo detto troppe volte: i partiti non esistono più. Gli assessori provinciali giocano da soli, governano individualmente. Con alle spalle nessuno se non alcuni fedelissimi e qualche clientela. Ma anche quelle si stanno diradando.

La gente è stufa. E non sa dove sbattere la testa perché in Trentino non ci sono alternative credibili al blocco di potere al comando ormai da quasi 20 anni. Saranno le circostanze esterne a far crollare le mura del fortino assediato.

Comunque sia, il PD trentino trova il tempo – e i soldi – per spedire un bigliettino di auguri cartaceo che, se vogliamo, concretizza il vuoto da noi descritto prima. Come frase augurale un proverbio armeno: “Per fare un albero di Natale ci vogliono gli ornamenti, l’albero e la fede nel futuro”. Pensiero anche simpatico, ma se pensiamo che i genitori o i nonni dell’attuale dirigenza del PD avrebbero dovuto fare la rivoluzione oppure costruire una democrazia basata sui valori cristiani, capiamo il livello raggiunto. Forse bisognerebbe spiegare che per fare un partito ci vogliono le idee, le strutture e soprattutto il contatto con i cittadini. Ora resta solo una struttura inservibile che, come un albero di Natale senza ornamenti e senza fede nel futuro, può essere soltanto bruciato o portato alla discarica.