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QT n. 11, novembre 2023 Seconda cover

La mafia è qui... e i trentini non se ne accorgono

Pubblicate le motivazioni della sentenza “Perfido”: i giudici analizzano la penetrazione degli 'ndranghetisti nella (spensierata) società trentina

Le indagini investigative hanno documentato come la Locale trentina fosse in .una fase ‘espansiva’, in quanto stava operando attivamente per realizzare l'acquisizione e lo sviluppo di ulteriori attività imprenditoriali, anche in settori diversi”. Questo il passaggio centrale delle motivazioni con cui la Corte d’Assise ha spiegato la condanna degli imputati di Perfido. Motivazioni che non si occupano solo delle responsabilità dei singoli imputati, ma che descrivono l’impatto della consorteria sulla società trentina, la sua pericolosità attuale, e quella potenziale, se venisse a mancare il contrasto.

La Corte infatti prosegue, in un crescendo sempre più allarmante: “Tale attività (sul versante economico, ndr) si accompagna ad un progressivo e sempre maggior controllo del territorio (grazie anche alla condotta compiacente della Stazione locale dei Carabinieri), sia tramite l'utilizzo di metodi gravemente intimidatori (ad esempio lesioni, estorsioni), sia attraverso l'acquisizione di cariche amministrative comunali ovvero tramite collegamenti e contatti con figure politiche o istituzionali operanti non solo in ambito locale, ma nell’intera Provincia”. E qui dovrebbe scattare, per tutti, l’allarme rosso.

Ci sono stati per fortuna gli anticorpi: “La Corte ritiene quindi accertato che proprio l'attività di indagine abbia impedito un'espansione dell’attività criminosa della locale trentina che era già in atto e che avrebbe portato gradatamente all'acquisizione di attività economiche diversificate” e – aggiungiamo noi – ad ancor maggiori condizionamenti a livello politico ed istituzionale.

Non c’è da stare allegri. Le indagini di cui si parla – l’Operazione Perfido – è evidentemente stata l’ultima spiaggia, dopo che anni di altre indagini su “una serie di soggetti calabresi legati da rapporti parentali con pregiudicati, con i quali intrattenevano contatti” si sono arenate – ne accenna la stessa Corte e lo approfondiremo nei prossimi numeri – causa inerzie e sottovalutazioni ai massimi livelli istituzionali.

Insomma, la penetrazione mafiosa è stata una cosa molto seria. Divenuta grave perché incontrastata fino a questi ultimi anni. Continuare nella sottovalutazione, come si sta facendo ora a Lona Lases (vedi a pag 13), come colpevolmente si è fatto in questa ultima demente campagna elettorale (ne scriviamo nella cover story) è fare, per miope tornaconto o per mera stupidità, il male del Trentino.

Vediamo quindi meglio come la sentenza descrive l’avanzata della (presunta, fino a sentenza definitiva) locale ‘ndranghetista in val di Cembra.

Il mondo delle intercettazioni

Iniziamo anche noi con la stessa premessa che usano i giudici. Il tema è la validità delle prove, cioè delle intercettazioni.

Nelle settimane, nei mesi precedenti il processo, non solo in Val di Cembra, ma soprattutto nei corridoi del Tribunale si sosteneva (avvocati e non solo) che “Perfido” si sarebbe sgonfiato come un palloncino. Perché non ci sarebbero stati testimoni disposti a spalleggiare l’accusa e quindi ci si sarebbe basati solo sulle intercettazioni, facilmente contestabili. La tesi si è rivelata corretta in quanto ai testimoni, l’accusa non ne ha presentato neanche uno; sbagliatissima sulle intercettazioni. Non ne è stata contestata nessuna (o meglio una sola, di cui la Corte ha ritenuto di non tenere conto, senza che il fatto cambiasse alcunché di una virgola).

Il punto è centrale. Immaginiamoci un film di gangster americano, in cui l’eroe di turno, con grande sprezzo del pericolo, registra il cattivone mentre si vanta delle sue malefatte, e poi porta il registratore in Tribunale. Bene, i nostri investigatori non avevano una siffatta registrazione. Ne avevano a decine, centinaia, migliaia, anni di intercettazioni telefoniche e ambientali di una miriade di soggetti.

Era possibile contestarle, dire “Quello non sono io, non è la mia voce”? Neanche per sogno, spiega la Corte: “L'attribuzione dell'identità dei soggetti monitorati ... si è fondata sulla titolarità e/o disponibilità del mezzo intercettato da parte degli indagati e sulle notizie fornite dai medesimi circa l'identità degli interlocutori”. Cioè se un tale dal telefono di Giuseppe Battaglia chiama il telefono di Mario Nania, e questi risponde “Ciao Giuseppe” e l’altro ”Mario, che stai combinando?”, è dura avanzare dubbi su chi siano i due.

Così è caduta la principale linea difensiva. E si sono aperte le porte su una realtà altrimenti difficilmente immaginabile: anni di contatti con pregiudicati, ordini dalla Calabria profonda, ricordi di antiche guerre ed eclatanti delitti, attuali ricatti, intimidazioni, truffe, accordi, minacce, violenze… Insomma, giorno per giorno, la vita di un’organizzazione criminale, squadernata dai suoi stessi interpreti.

Prima gli inquirenti, poi la Pubblica Accusa, infine i giudici hanno raccolto e selezionato queste dichiarazioni: il quadro che ne esce è univoco, e non ha lasciato alcuno spazio alle ipotesi difensive di sostanza (“Non è mafia”) ma solo alla ricerca dell’alleggerimento della posizione del singolo (“Aveva una posizione defilata… lui non contava niente… è un asino, come poteva influenzare il voto comunale…”).

Trentini innocenti?

Anche la Corte d’Assise, come già i giudici dei precedenti processi, ripercorre la genesi dell’insediamento della compagine in Trentino. Genesi che in parte spiega il mancato allarme nella popolazione (ma solo in parte: ricordiamo cosa dicevano i boss ‘ndranghetisti che passando in autostrada parlavano dei trentini: “Sono innocenti, qui i nostri fanno affari della madonna”. Noi attualizziamo al giorno d’oggi: “Sono dei babbei i trentini, dopo 4 processi hanno fatto una campagna elettorale senza mai nominarci”).

Tornando alla sentenza, essa individua l’origine della consorteria locale nei trasferimenti dalla Calabria per sfuggire a indagini o a vendette nelle guerre di mafia: “La decisione di trasferirsi in Trentino si era rivelata una ‘scelta felice’ sia per l'assenza di rilevanti consorterie criminose autoctone, sia per l'indole - definita ‘senza malizia’-' degli abitanti”.

Maliziosa invece, astuta, fu la modalità dell’insediamento. C’erano due alternative: l’insediamento tradizionale, con i calabresi che si facevano largo a suon di intimidazioni, imponendo il pizzo alle attività produttive. Strategia sostenuta dal capo della locale, Innocenzio Macheda. Vinse invece, perché così decise la casa madre calabrese, la strategia ”silente”, come spiega la Corte che riprende la definizione del giudice Borrelli nel processo a Domenico Morello: si attua “attraverso l'acquisizione di attività economiche lecite sia pure attraverso l'utilizzo di liquidità e denaro di provenienza presumibilmente illecita”. Strategia impersonificata da Giuseppe Battaglia, che assieme ai cembrani Odorizzi, acquista la cava Camparta. Un business più che sospetto: un esborso di 12 miliardi per un valore stimato di 6 miliardi, l’inusitata disponibilità di soldi di Battaglia semplice artigiano, il rientro ai Battaglia di 7 miliardi. Tutte cose che allertano la Guardia di Finanza, ma le indagini non vanno molto avanti.

Il giro economico si allarga: Giuseppe Battaglia a Mantova acquisisce con Antonio Muto dell’omonima famiglia ‘ndranghetista la Marmirolo srl, fatta fallire (e Muto viene condannato per bancarotta fraudolenta, per colpa di Battaglia sostiene, che non ha consegnato i libri contabili che lo avrebbero scagionato); comunque Giuseppe acquisisce e porta al fallimento la Cava Porfido di Bruno Saltori, che viene truffato, depredato, coinvolto in vari reati patrimoniali e nello sfruttamento degli operai; la Porfidi Lases srl formalmente di Battaglia Pietro e Mario Nania; la Porfidi Dossi sas di Battaglia Pietro & C; la Anesi srl portata anch’essa al fallimento, amministratore delegato è – formalmente - Mario Nania che viene condannato per estorsione a danno degli operai; la Porfidi 99 srl, amministratore ancora Nania e liquidatore Battaglia; infine la Finporfidi srl dei figli di Giuseppe Battaglia, che ne è comunque amministratore. Della galassia fa anche parte la la Pietre Naturali Macheda srl, dell’omonimo capo della locale.

Come si vede, una serie avventurosa di business. Così sintetizza la Corte: “Modus operandi di Giuseppe Battaglia con la diretta collaborazione della moglie: utilizzare (eventualmente tramite prestanomi) una società per poi abbandonarla al suo destino fallimentare e costituire nuove società tramite le quali continuare l’attività”.

La ragione di tutto questo? Lo spiegano decine di intercettazioni: emettere false fatture, effettuare pagamenti in nero, evadere il fisco, e poi chiudere baracca e burattini. Tra i sodali intercorrono accordi per costituire nuove società con legali rappresentanti quelli di loro che sono meno esposti.

Tra Macheda, Giuseppe Battaglia, il fratello Pietro e la moglie Giovanna Casagranda, Mario Nania ci sono continui colloqui per far transitare documenti contabili e denaro in nero da una società all’altra.

E’ sistematica la violazione delle normative sull’estrazione e commercializzazione del porfido. Per una truffa ai danni del Comune di Albiano Nania viene condannato, avendo dichiarato in misura notevolmente inferiore la quantità di materiale estratto e quindi pagandone un canone conseguente. Anche Battaglia, effettua trasporti di materiale porfirico senza documentazione, agli stessi fini, ma non si fa beccare. Dopo il fallimento della Anesi e il sequestro, Nania entra nella cava sequestrata e cede macchinari a terze persone. E’ una serie ininterrotta di illegalità (infatti sono in corso o alle porte vari processi parelleli per reati economici).

Pietro Battaglia, che non ama il fratello, così conclude sul suo arricchimento: “E’ semplice fare un calcolo, in quanto, non pagando gli operai, non pagando le tasse, il materiale lo ha venduto, loro hanno lavorato gratis per lui... e tutto questo è solo guadagno

In questo quadro viene inserito un altro sodale, che non opera in val di Cembra e nemmeno nel porfido, Domenico Morello, che lavora nella logistica. Già condannato in un altro ramo processuale, Morello opera attraverso la creazione di una pluralità di società intestate a prestanomi Morello: Viene illustrata la sua modalità di operare attraverso la creazione di una pluralità di società intestate a prestanomi “per non essere soggetto ad alcun controllo o provvedimento giudiziario”. Seguono le intercettazioni in cui Morello si vanta, assieme al suo commercialista e coimputato Federico Cipolloni, di effettuare operazioni di riciclaggio (“le ha inventate Cipolloni queste cose”).

Ma fin qui forse molti non si scandalizzeranno più di tanto. Non pagare le tasse non è peccato, imbrogliare il pubblico è peccato veniale, i reati fiscali andrebbero condonati…

Lo sfruttamento degli operai

Diverso, speriamo, è il giudizio di tutti sull’atteggiamento disumano nei confronti degli operai.

Lì fa testo il bestiale pestaggio dell’operaio cinese Hu-Xupai. Noi l’abbiamo più volte analizzato e ricordato, è il centro dello spettacolo teatrale su “Perfido” degli studenti dell’IT Martini.

Anche per i giudici è estremamente indicativo: “E' del tutto evidente l'efficacia intimidatrice che tale episodio ha provocato nel settore della lavorazione del porfido e nei confronti degli altri lavoratori (i quali, anch'essi, erano in arretrato nei pagamenti delle retribuzioni). L’effetto intimidatorio di tale episodio non è assicurato solo dalla violenza e dalle minacce poste in essere in occasione di tale pestaggio, ma anche dalla percezione, evidentemente diffusa nell'ambiente, che i titolari delle ditte di porfido godano di un particolare trattamento di favore da parte dei Carabinieri della stazione locale di Albiano; invero, gli stessi - in questa, come anche in altre occasioni - si mostrano particolarmente solidali con tali soggetti.”

Anche la Corte riporta molteplici intercettazioni in cui gli operai, ridotti alla fame, si lamentano dei mancati pagamenti, supplicano, si umiliano. Vengono tacitati con false promesse, con richieste di dilazioni, quando non vengono addirittura derisi.

A seguito delle ripetute rimostranze dei dipendenti, viene falsamente detto loro che il bonifico è già stato eseguito oppure gli vengono consegnate misere somme di denaro contante al fine di acquietare le richieste. Ad esempio, Nania Mario Giuseppe, riella conversazione del 31 luglio 2017, prospetta di consegnare a Zhao Hanqiu una somma di 100 euro a fronte del debito di circa 12500 euro che il cinese reclama. Lo stesso utilizza con i dipendenti stranieri che reclamano il proprio stipendio un frasario acceso, violento e categorico, per affermare la sua autorità e riferisce menzogne assicurando di aver già provveduto al pagamento. E' esplicativa nel senso la circostanza, (che si ripeterà molte altre volte anche con altri dipendenti stranieri) registrata nel maggio 2017 allorquando ii Nania giura di aver bonificato il salario il giorno 8 maggio 2017, mentre il giomo 19 maggio, Zhao Hanqiu detto Zo, lamenta di non aver ricevuto alcun emolumento in banca a suo favore”. E questo è solo un caso tra quelli che riporta la Corte.

Se con gli immigrati, che sono in condizione di netta sudditanza, si valica ogni limite, non è che con gli operai italiani si usino i guanti bianchi. Così Franco Favara e Gianluca Valler, dipendenti di Pietro Battaglia e di Nania, parlano di quest’ultimo: “Siccome a casa non ha nessuno da sfogarsi, neanche i cani, allora viene qui a sfogarsi e il primo che trova..." Franco Favara: "Però una volta… si però una volta quando non c'era sto casino del processo (il processo per l’estorsione agli operai dell’Anesi srl, che evidentemente rende Nania più cauto ndr) una volta con uno l'albalan mona con il manganello vòleva batterlo...ma adesso al limite viene qui in baracca con noi, ma una volta… ti sputava eri merda per lui, merda eri merda…”.

Le intimidazioni

Così la Corte ricorda il dettato della Cassazione: "Il carattere fondamentale dell'associazione di tipo mafioso va individuato nella forza d'intimidazione che da essa promana: la consorteria deve infatti potersi avvalere della pressione derivante dal vincolo associativo, nel senso che è quest'ultima... a esprimere il metodo mafioso e la sua capacità di sopraffazione”.

Diversi sono gli episodi. La Corte ricorda gli inquietanti rapporti tra i sodali e i proprietari di imprese in vendita. A fare shopping dalla Calabria viene mandato Antonino Quattrone. Ha grandi disponibilità di capitali Quattrone, anche se risulta lavorare, apparentemente, solo quale dipendente della One Construction, percependo uno stipendio di circa 1.600,00 -1.700,00 euro mensili. In realtà è direttamente intraneo alla 'ndrangheta, come commenta Pietro Battaglia. Lo schema è questo: Nania individua l’azienda da comperare, e poi incontra i proprietari assieme a Quattrone.

E’ il caso della Cava Stone Company dei fratelli Paolo e Gino Colombini. Questo il primo contatto di Nania (per conto di Quattrone) con i Colombini: una conversazione dall’”evidente profilo intimidatorio” scrivono i giudici. Nania infatti scende dalla macchina e così si rivolge a Paolo Colombini “Paoluzzo, ma che fine hai fatto porco Giuda?” e quando uno dei presenti cerca di ammansirlo - “Sono quasi tuoi paesani” -, Nania ribatte: “Ma che paesani... ma che cazzo spari... ricordati che i miei paesani sono di Cardeto, Macheda, Giuseppe, Pietro... di Cardeto e basta... altri non ne ho altri paesani qui” e finisce con frasi intimidatorie se qualcuno parla dell’incontro.

L’intimidazione deve essere stata efficace, al punto che Gino Colombini, in udienza, “ha dichiarato di non ricordare nulla, di non aver mai intrattenuto alcun rapporto o conversazione in merito alla vendita della società, salvo poi, effettuata la lettura delle intercettazioni... affermare che di tutto si occupava il fratello Paolo, nel frattempo deceduto”. (Per la cronaca, l’acquisto – come gli altri – non è avvenuto, perché poco dopo da Cardeto è giunta la notizia che i ROS stavano indagando sulla locale trentina, e Quattrone ha pensato bene di non farsi più vedere, peraltro tardivamente: al processo era imputato ed è stato condannato ad 8 anni e 8 mesi.)

Altra azienda da comperare era Ia Arderlegno srl di Ivan Agostini, il quale, in Tribunale, ha dichiarato di non ricordare di aver mai incontrato il Quattrone e di non aver avuto alcun incontro, né con il Nania né con il Quattrone, presso la società, per visionare la fabbrica.

Così la Corte: “E' poco verosimile che il teste non abbia alcun ricordo delle trattative intercorse, svolte allorquando lo stesso di trovava in un momento di grave difficoltà economica ed aveva l'urgenza di cedere la propria attività per un corrispettivo elevatissimo (un milione e mezzo/due milioni); inoltre, gli incontri sono, al contrario, documentati e comprovati dalle intercettazioni effettuate dagli inquirenti”.

Noi, per quel che conta, confermiamo: la deposizione di Agostini è stata umanamente imbarazzante, penosa, era evidentissima la paura, che gli faceva dire cose senza senso, rischiare perfino un’incriminazione per falsa testimonianza.

Le altre aziende visitate da Quattrone e Nania, qui accompagnati da Macheda, sono poi la segheria Scarpa Legnami di Scarpa Claudio & C. con sede in Fornace (TN), e un centralissimo negozio a Trento, 170 metri quadri in piazza Cesare Battisti, in vista dell'apertura di un pastificio.

Come si vede, grandi disponibilità di liquidi, grandi progetti di ampliamento delle attività. Poi è arrivato “Perfido”.

Non è comunque facile lavorare per la ‘ndrangheta. Pietro Battaglia, che sembra ben informato, sostiene che Quattrone ha problemi di liquidi: “I soldi dei lavori li deve versare direttamente alla ndrangheta e lui (Quattròne, ndr) è destinato a rovinarsi”.

Mario Nania e Pietro Battaglia: “A questi livelli non puoi permetterti di rischiare"

M: "Nooo..."

P: "Non te lo puoi permettere, perché poi perdi il controllo del sistema e non..."

M: "E' bravo Nino. Eppure è da 10 anni che... praticamente, con la ditta non lo ha toccato nessuno. Si vede che si sa comportare con le persone. Perché là ti ammazzano…".

Fine prima parte. Il seguito al prossimo numero

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