La ferocia di Moni Ovadia
“Carta bianca Palestina”
Tra le diverse iniziative di sostegno al popolo palestinese, sembra doveroso segnalare GazArt, una “quattro giorni per trasformare l’arte in resistenza, la creatività in cura, la comunità in gesto concreto di solidarietà.”
Nella Chiesa (sconsacrata) e nell’adiacente giardino di Sant’Osvaldo, in via Santa Maria a Rovereto, la Scuola di Sant’Osvaldo– Laboratorio delle Arti, assieme a una decina di collettivi e organizzazioni, ha dato vita a una serie di eventi (compresa l’esposizione di una serie di opere d’arte, vendute all’asta con l’incasso - 22.500 euro - ad Emergency) in varie maniere legate al dramma di Gaza e del popolo palestinese.

Momento clou è stato lo spettacolo “Carta bianca Palestina” di e con Moni Ovadia, presentato in un Teatro alla Cartiera tutto esaurito.
Ovadia è un attore, drammaturgo, scrittore molto noto, di origine bulgara ma soprattutto, in questo caso, di etnia ebraica. E di questi tempi le riflessioni, o meglio, uno spettacolo, di un ebreo sul dramma di Gaza, è quanto di più attuale.
Diciamolo subito: di Moni Ovadia è nota la vicinanza alle tradizioni popolari ebraiche, i suoi spettacoli sono costellati di riferimenti, proverbi, battute di un popolo caratterizzato da una fortissima, incredibile coesione, per quanto sbattuto, per secoli, ai quattro angoli del mondo, perfetto capro espiatorio per re, zar, regimi. Moni Ovadia è, alla sua maniera, un cantore della cultura popolare elaborata in secoli di vicissitudini: rappresentata con ironia arguta ed affettuosa. Orbene, come si presenta il nostro in un frangente in cui il suo popolo, o meglio, la parte più strutturata ed istituzionalizzata del suo popolo, da vittima si trasforma in carnefice?
Ovadia rivendica orgogliosamente la sua ebraicità, ma altrettanto orgogliosamente la sua laicità. Si dichiara uno studioso della Bibbia, ma vista come eccezionale documento storico, non come dettato divino.

E sulla deriva presa da Israele è durissimo. Pronuncia parole feroci, talora anche volutamente volgari: è una condanna totale, senza attenuanti. Parte dalle origini, dal primo emergere del sionismo a metà del 1800, e poi gli effetti dell’affare Dreyfus, i primi insediamenti in Palestina, le conseguenze della Shoah, l’uso del terrorismo contro i palestinesi e poi via via, le varie guerre fino ai giorni nostri. E’ un racconto aspro. Ma necessario.
Alla fine si pronuncia non per due popoli e due stati, ma per due popoli, due religioni, in un solo stato che sappia essere laico. Un’utopia forse, visto l’odio reciproco che oggi imperversa.
Ma il messaggio non è questo. Il messaggio lo rappresenta lui stesso: che condanna chi del suo popolo ha perso il senso dell’umanità. Se tanti ebrei, tanti palestinesi fossero come Ovadia, la soluzione la si troverebbe subito.
Si esce dallo spettacolo sollevati. E’ il ben noto meccanismo della catarsi, che rendeva sereni, purificava gli spettatori dell’antica Grecia di fronte alla rappresentazione di tremende, truculente tragedie. Ma oltre alla catarsi, quella di Ovadia è una testimonianza: si può non odiare l’altro. Si può, si deve, dissociarti dai tuoi, quando diventano disumani.