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E il referendum sull’ art.18?

Aldo Collizzolli

Anche se i grandi mezzi di comunicazione lo stanno oscurando, il voto per l’estensione dell’art. 18 alle piccole imprese è un appuntamento cruciale. La notizia riportata dai quotidiani negli ultimi giorni è netta: l’80% degli italiani ignora l’esistenza del referendum. Se il quorum non verrà raggiunto, le possibilità di difesa dei diritti di chi lavora (anche per coloro ai quali il referendum non si rivolge direttamente) si attenueranno.

Il prossimo appuntamento referendario è una delle rare occasioni che abbiamo per estendere i diritti; ciò assume un aspetto più rilevante perché mentre la sinistra sul tema si divide, la destra (in alcuni casi, anticipata dal centro-sinistra con le modifiche intervenute nell’ultimo decennio) scrive leggi che lo svuotano: il governo taglia dal computo delle ore le malattie e le ferie, invertendo così decenni di conquiste sindacali; rende possibile la deroga al riposo giornaliero, punta a considerare le domeniche come giorni lavorativi uguali agli altri. E ancora, dispone che alla scadenza dei contratti collettivi, tutte le norme già concordate verranno azzerate.

Da anni è in atto un processo di precarizzazione dei rapporti di lavoro di cui non si intravede la fine. Le imprese potranno ricorrere al lavoro interinale "in presenza di ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo o sostitutivo". Così si cancella il limite che assegnava ai contratti la definizione dei casi in cui è consentito il lavoro in affitto; questa forma di flessibilità viene estesa all’agricoltura, all’edilizia e ad altre categorie.

In questo momento, la sinistra non pare abbia né modelli né capacità di scegliere. E’ invece chiaro il modello cui guarda la destra, che nel campo del lavoro è la corvée (una forma premoderna di lavoro non pagato, abolita poco prima della rivoluzione francese). Per i partiti cosiddetti di sinistra s’impone una questione per loro defunta: i diritti nel lavoro. Dietro le ragioni del sì, ci sono le speranze di quei milioni di persone che non accettano atti arbitrari come un licenziamento senza giusta causa e che vogliono uscire dalla condizione di cittadini di serie B.

La tutela in materia di licenziamento è un principio di emancipazione e un valore decisivo che riguarda la libertà e la dignità della persona. Esso regola i rapporti di potere all’interno dell’impresa e ristabilisce in parte lo squilibrio tra lavoratori e datori di lavoro. Si va dal lavoro a chiamata al lavoro accessorio o occasionale, dalla possibilità di ripartire un lavoro fra due o più lavoratori per svolgere un’unica prestazione all’ampliamento del lavoro part time, con l’allargamento delle ipotesi di lavoro intermittente o a chiamata (con inevitabili riflessi per il lavoro femminile, per il quale la determinazione dei tempi di lavoro è funzionale all’impegno familiare). Bisogna estendere i diritti a tutti i lavoratori di commercio e turismo, perché di diritti c’è bisogno anche nel mondo del commercio, della ristorazione, del turismo. Piccole aziende dove regna l’arbitrio dell’imprenditore, un esercito di giovani precari che lavorano nei musei, nella net economy, nelle ditte di pulizia, mentre chi ha ancora il classico posto da dipendente diventerà ultraflessibile a causa delle riforme del governo su orario, domeniche, part-time.

Di recente sono state diffuse alcune cifre, secondo cui attualmente l’art. 18 si riferisce solo al 37% della forza lavoro. E allora, perché una sua estensione dovrebbe essere considerata marginale per effetto dell’innegabile importanza del dilagare dei lavori cosiddetti autonomi? D’altra lato, va sottolineato che l’iniziativa referendaria propone una questione di principio. Si tratta di un diritto fondamentale o no? Se sì, come tanti anche fra i perplessi dicono, perché limitarlo alle aziende con più di 15 dipendenti nelle quali opera poco più di un terzo del lavoro subordinato? E’ profondamente ingiusto un sistema che protegge "troppo rigidamente" la parte alta del mercato del lavoro a scapito di quella bassa, che "sposta la precarietà su chi sta sotto". Per un’elementare ragione di uguaglianza è preferibile estendere l’art. 18 a chi lavora nelle piccole aziende. Nel mercato del lavoro non c’è uno scambio tra pari, per questo esiste il diritto del lavoro a protezione della parte più debole.

Dunque il "sì" può avere successo. Il problema è essenzialmente il conseguimento del quorum, per cui è necessario attivarsi al fine di togliere efficacia al silenzio delle televisioni di regime. Nonostante il black out sul referendum, il 70% è orientata a votare sì. Significa che le persone normali guardano alla sostanza delle cose. La sostanza è che i lavoratori devono essere uguali di fronte a un arbitrio.

Una vittoria del sì al referendum segnerebbe un’importante inversione di tendenza in materia di diritti del lavoro, sarebbe un bastone tra le ruote della politica liberista del governo Berlusconi, poiché l’arma scelta dalla Casa delle libertà - nonché dall’ala sedicente riformista dell’Ulivo - per impedire questo esito è il boicottaggio del voto. Non estendere l’art. 18, o addirittura smantellarlo, proprio quando la contrattazione collettiva copre sempre meno i lavoratori, è una rinuncia assurda, votare e far votare sì è un impegno per tutti i democratici. Sarebbe anche interessante sapere come voteranno i consiglieri ed i prossimi candidati alle elezioni provinciali di novembre.