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QT n. 9, 1 maggio 2004 Servizi

Irak: il gioco si fa duro

Il sempre più rischioso disegno imperiale degli USA e le difficili scelte dell’Europa.

Mentre andiamo in stampa, le notizie sul fronte irakeno si susseguono in tutta la loro gravità, destando preoccupazioni, timori, emozioni. In queste pagine presentiamo degli interventi che le inquadrino in una meno convulsa visione d’assieme. Il prof. Carlo Saccone, qui analizza la decisione dell’intervento americano ponendola all’interno di una lucida (anche se arrischiata, come i fatti dimostrano) visione di politica globale, sfrondata quindi sia dei pretesti propagandistici (la lotta al terrorismo) come delle ridicolizzazioni folkloristiche (Bush figlio che vuole completare il lavoro incompiuto del padre). In questa pagina invece Giovanni Agostini parla non del conflitto, ma della sua rappresentazione da parte dei media: indagando sull’uso - ora distratto, ora partigiano, quasi sempre disinvolto – dei termini usati per rappresentare le due parti ("terroristi", "resistenti", "aggressori", "truppe di pace"...).

La situazione sul campo presenta certamente alcuni elementi nuovi: 1. inedita alleanza tra gli sciiti estremisti di Muktada al-Sadr e i guerriglieri irriducibili del triangolo sunnita; 2. insospettabile vitalità, anche militare, della guerriglia patriottica, ovvero della "resistenza" irakena; 3. una accorta regia politico-psicologica che ha individuato in un mix devastante di attentati in Occidente e rapimenti di civili occidentali operanti in Irak, uno strumento potente di pressione.

Il secondo fattore forse è meno nuovo di quanto si pensi: pare che Saddam avesse riempito il paese di depositi clandestini di armi (non le fantomatiche armi di sterminio, ma comunissime armi di uso individuale, dai mitragliatori ai bazooka, e esplosivi convenzionali), per scatenare la guerriglia e rendere amaro al vincitore il gusto della vittoria. E’ certo comunque che i confini irakeni, soprattutto quelli con Siria e Iran (gli "stati canaglia"), non sono mai stati impermeabili e che il flusso dei rifornimenti di armi alla guerriglia non si sia mai interrotto. A questo proposito, il primo degli elementi citati, il verificarsi sul campo dell’alleanza sciiti-sunniti, conduce a una conclusione univoca: dall’esterno una accurata regia sta lavorando per impantanare gli anglo-americani e vietnamizzare il conflitto. Si è persino ipotizzato da qualche parte- un segreto "patto del diavolo" tra l’Arabia Saudita sunnita-wahhabita, e l’Iran sciita-fondamentalista degli ayatollah, paesi ideologicamente e religiosamente agli antipodi ma che oggi si sentono direttamente o indirettamente minacciati dal nuovo "vicino" americano. Il senso di questa improvvisa recrudescenza della guerriglia potrebbe essere tutto lì: un duro avvertimento lanciato agli anglo-amercani a non farsi venire in mente qualche altra avventura, oltre a quelle afghana e irakena.

L’Iran, in particolare, può certamente trattare con gli USA da posizioni di forza, se dimostra di poter controllare a piacere il campo sciita irakeno; la Siria, il paese che si sente più direttamente minacciato, fa capire che, se del caso, venderà cara la pelle...

Gli USA sono posti oggi di fronte a scelte difficili, ma non impreviste: chi crede che la guerra irakena sia solo una folle avventura malamente programmata si sbaglia. Negli uffici in cui si pianifica - spesso con decenni di anticipo - la strategia globale dell’Impero, si prendono in considerazione gli scenari più diversi, con opzioni politico-militari differenziate relativamente ai costi minimi e ai costi massimi prevedibili. Ho già avuto modo di illustrare su queste pagine le ragioni strategiche e geo-politiche di fondo che hanno indotto gli americani a invadere l’Iraq e che, soprattutto, li inducono a guardarsi bene dal tornare indietro. I 500 o 1000 morti del primo anno di guerra sono, dal punto di vista dell’Impero e delle sue finalità, una inezia. Quando l’impero romano decideva una missione ai suoi confini, spediva 50.000 legionari nella assoluta certezza che ne sarebbero tornati vivi - tra morti in battaglia e per gli stenti del viaggio - molto meno della metà, ma poco importava: morivano i legionari, ma viveva l’Impero. Né gli Stati Uniti o la Gran Bretagna sono paesi la cui opinione pubblica reagisce emotivamente al ritorno in patria delle bare dei soldati: da quelle parti non ci si commuove facilmente per queste cose, non si scomodano presidenti e vescovi per funerali di stato ai militari morti, né si ha la lacrima facile. "When the going gets tough, the tough get going" - suona un vecchio adagio dell’esercito britannico che si può rendere all’incirca: quando il gioco si fa duro, i duri cominciano a giocare.

Se la situazione precipitasse, gli anglo-americani potrebbero certamente rafforzare, come in parte stanno già facendo, l’entità del corpo di spedizione. Potrebbero persino regionalizzare il conflitto assegnando ad esempio un ruolo di peace-keeping al potente e bene armato esercito della Turchia. Alla quale non dispiacerebbe rimettere un piede nell’ex-provincia ottomana che galleggia letteralmente sul petrolio… Forse persino l’Iran, potrebbe entrare domani in Irak con "truppe di pace", dopo aver fornito le garanzie richieste… Ma gli anglo-americani potrebbero anche semplicemente decidere di ritirarsi nei loro fortini superprotetti nel deserto irakeno, e aspettare. Ovvero lasciare che il paese piombi nella prevedibile anarchia e aspettare - sei mesi o due anni - che emerga l’uomo o il potere forte per poi trattare direttamente con quest’ultimo.

Certamente infatti è in atto, anche all’interno del mondo sciita irakeno, un braccio di ferro: da un lato, i moderati degli ayatollah al-Sistani e Abd al-Aziz al-Hakim (discretamente sostenuti dall’establishment moderato dell’Iran), entrambi attendisti e favorevoli a un accordo con gli USA che garantisca comunque la supremazia politica sciita; dall’altro, gli estremisti di Muktada al-Sadr (che avrebbe pure amici nell’Iran più anti-americano e radical-conservatore, anche se, così sembra, sempre di meno), tutti presi dalla fretta rivoluzionaria di instaurare una teocrazia.

Vi sono poi i sunniti irriducibili, quelli del triangolo della morte di Falluja che contano su unità d’élite dell’ex-esercito di Saddam, i quali, sostenuti probabilmente dalla Siria, hanno oggi tutto l’interesse a far fallire il piano americano di consegnare il paese dopo il 30 giugno a un governo tutto irakeno, inevitabilmente dominato dalla maggioranza sciita (prospettiva che spaventa anche l’Arabia Saudita, che ha al suo interno minoranze sciite turbolente stanziate proprio in zone ricche di giacimenti e pozzi). Da non dimenticare, infine, i kurdi, l’unico fronte che per ora non impensierisce gli angloamericani, che per il momento stanno buoni, anche per il timore di non fornire pretesti d’intervento al vicino turco, quantomai preoccupato dell’autonomia e della crescente influenza kurda nel nuovo Irak.

La lotta tra le fazioni sciite, tra i sunniti e gli sciiti, tra kurdi e tutti gli altri per assicurarsi la "pole position" nella spartizione del potere nell’Irak di domani, rende lo scenario ancora confuso. Molti problemi della coalizione anglo-americana si potrebbero facilmente risolvere se l’Irak avesse nuovamente il suo uomo forte, che alla fine sarà quasi sicuramente un religioso sciita moderato, qualcuno comunque con cui gli americani vogliono trattare una volta per tutte le condizioni dell’occupazione a tempo indefinito del paese.

Perché, è bene ricordarlo, di questo si tratta: gli americani, vincitori della seconda guerra mondiale, non hanno più lasciato le loro basi in Germania, Italia e Giappone… Il Medio Oriente diviene ora la nuova postazione avanzata dell’Impero, dell’Occidente, nel confronto con i Global Competitors di domani (leggi: Cina e India). Il Medio Oriente islamico è già il terreno di competizione dei grandi giocatori di domani, e non solo per il petrolio come comunemente si dice. Il mondo arabo e islamico rappresenta un mercato di oltre un miliardo e duecento milioni di consumatori che hanno bisogno di tante cose e che aspirano a livelli di vita sofisticati (e ai modelli di vita corrispondenti), livelli tali da renderlo il mercato più interessante del prossimo futuro. Il suo stesso tasso di sviluppo demografico è un fattore strategico di grandissimo interesse per l’Occidente euro-americano che è drammaticamente "piccolo" rispetto ai numeri delle popolazioni indiane, cinesi e delle "tigri asiatiche". Il miliardo e passa di arabi e musulmani diventano così (specie se, come auspica la dirigenza dell’Impero, saranno in tempi ragionevoli pienamente normalizzati e omologati ai valori e agli stili di vita occidentali) la massa demografica e di mercato necessaria a controbilanciare i "numeri" di Cina e India, i due Global Competitors del nostro futuro immediato.

Ricordiamo qui che la Cina dovrebbe raggiungere il PIL americano al più tardi nel 2020 e che, secondo recenti stime, l’India dovrebbe superare l’Unione Europea entro i prossimi trent’anni e collocarsi al terzo posto della graduatoria mondiale dei paesi più ricchi nel 2050, a una incollatura dagli USA. E’ in questo quadro insomma che si deve comprendere come l’impresa anglo-americana sia un’azione imperiale di grandi proporzioni geo-politiche e di ampio respiro temporale, pianificata a tavolino con cura e in ogni dettaglio da fior di cervelli, e che non sia suscettibile di radicali ripensamenti.

Il ruolo dell’ONU nella prospettiva più immediata appare difficile: l’impegno diretto o l’assunzione della guida diretta delle forze straniere attualmente impegnate in Iraq, con o senza integrazione di contingenti arabi, è una pia illusione. Con l’attuale situazione, truppe arabe significherebbe in pratica truppe sunnite… con quale entusiasmo della maggioranza sciita irakena attuale, è facile immaginarlo. Quali governi arabi moderati, inoltre, correrebbero il rischio di insurrezioni popolari all’interno per mandare i propri soldati a cavare le castagne dal fuoco a Bush e Blair? . Né l’ONU di Kofi Annan appare ansiosa di lasciarsi coinvolgere nel quadro di un impegno in cui, fatto qualche necessario maquillage, la regia occulta o palese rimarrebbe comunque agli anglo-americani.

Purtroppo manca sempre l’Europa: oggi i due paesi-guida, Francia e Germania, che saggiamente decisero di tenersi alla larga dalla coalizione creata da Bush e Blair si tengono anche, prudentemente, alla larga dalla tentazione di guidare o promuovere iniziative ONU in cui, inevitabilmente, si troverebbero a svolgere un ruolo di primo piano. La Federazione Russa di Putin ha le sue grane con i musulmani di casa propria in Cecenia e, di certo, non aspira ad assumersene di nuove; inoltre, essa sembra offrire una discreta copertura all’Iran degli ayatollah, forse in un’ottica di contenimento dello strapotere geopolitico americano. La Cina è in una situazione analoga: certo i musulmani dentro i suoi confini sono sotto ferreo controllo, ma sono molti, e, sicuramente, da quelle parti nessuno piangerebbe se gli anglo-americani trovassero in Irak un nuovo Vietnam. Poi ci sono i paesi "piccoli e fessi", quelli che con dissennato entusiasmo aderirono all’impresa anglo-americana, e che oggi, tra minacce di attentati e rapimenti di vigilantes e civili vari, si trovano nella disgraziata situazione di chi è inguaiato fino al collo e non può più facilmente disimpegnarsi, se non a carissimo prezzo.

L’Italia, di cui si racconta ancora, in Europa, che non è mai stata capace di iniziare una guerra e finirla restando dalla stessa parte, si trova alle prese con l’eterno problema: paese dei melodrammi, è capace di fare all’occasione un "bel gesto" o qualche bella sceneggiata ad effetto, ma non di pensare e pianificare razionalmente gli obiettivi nazionali a lungo termine, né di riflettere seriamente sulle conseguenze di scelte avventate. È un paese che manca di regia…

Non abbiamo i duri capaci di giocare quando il gioco si fa duro e da questa situazione ormai non ci caveremo fuori con qualche lifting alla politica estera. Da una classe dirigente che ha lasciato andare in rovina progressivamente il sistema industriale avanzato del paese, consentendo che interi comparti (l’elettronica dell’Olivetti, la chimica di Montedison, la telefonia di Italtel) venissero tranquillamente svenduti all’estero tra torme di economisti plaudenti alle virtù del liberismo (e politici indifferenti, ma che preferiscono viaggiare in Mercedes o BMW piuttosto che su vetture italiane), ci si poteva aspettare forse che difendessero i nostri veri interessi nazionali anche nella questione irakena? Non manchiamo certo di cervelli e talenti, ma i migliori come si sa emigrano in America, mentre la signora Moratti pensa bene, nell’interesse nazionale, che sia giunto il momento di abolire il ruolo dei ricercatori…

L’Europa è, giustamente, spaventata. L’America che vuol far fare a Muktada al-Sadr la stessa fine che Sharon ha fatto fare allo sceicco Yassin ci porterà dritto dritto negli orrori di una Intifada su scala planetaria. E allora magari - inshallah - anche quel genio della signora Fallaci comincerà a capire di aver strenuamente combattuto solo dalla parte della "forza dell’idiozia", non della ragione, ma sarà magra consolazione. L’America, afflitta dal vecchio complesso del capitano Achab, rischia di piombare nell’abisso trascinata dalla furia della balena bianca del Grande Male: chi può, tra gli improvvidi balenieri, farebbe bene a abbandonare la scialuppa prima del suo inabissamento!

L’America sarà presto o tardi lasciata sola in questo suo disegno imperiale di maniacale lucidità, o al massimo si ritroverà accanto l’alleato inglese di sempre. Neppure l’establishment pragmatico dell’Iran potrà darle sottobanco una mano, se continuerà a bombardare le moschee e a stringere la mano a un amante della pace come Sharon.

Esiste, in effetti, anche uno scenario più apocalittico: stretta all’angolo da eventi bellici sfavorevoli sul campo, trascinata dal "complesso di Achab", l’America di Bush potrebbe essere tentata di giocare il tutto per tutto. Ovvero scatenare un attacco finale su Siria e/o Iran, gli "stati canaglia", con il supporto tecnico e logistico di Israele; con quali conseguenze Dio solo lo sa. Le conseguenze certe, però, a breve le pagheremo, e le stiamo già pagando tutti: instabilità, terrorismo, paura…

Le cancellerie europee in realtà concordano pienamente sull’obiettivo di lungo termine degli americani: ancorare stabilmente l’area medio-orientale all’Occidente e all’Impero di cui, con entusiasmo o col mal di pancia, tutte fanno parte. Il dubbio evidentemente riguarda il metodo: una riedizione brutale dell’espansionismo coloniale "civilizzatore" all’interno di una ideologia bellicista venata di malcelato razzismo anti-arabo. Qualcosa di fronte al quale un paese che di colonialismo se ne intende come la Francia arretra perplesso, e un altro come la Germania, che ha sulla memoria il peso di quella guerra di religione sui generis che fu l’eliminazione degli ebrei, si ritrae inorridita. La decisione della Spagna di Zapatero di ritirare le proprie truppe dall’Irak senza aspettare improbabili coinvolgimenti dell’ONU certamente rafforza il fronte dei "grandi obiettori", finora sostenuto essenzialmente da Schroeder e Chirac; ed ha aperto crepe macroscopiche nell’alleanza pro-USA. Ma non basta.

Urge l’elaborazione di una nuova politica verso il Medio Oriente di cui l’Europa (non quella dei "fessi" o degli amanti delle sceneggiate) sia l’artefice consapevole. Francia, Germania, la nuova Spagna di Zapatero hanno la memoria storica, la coscienza critica e le risorse morali e intellettuali per elaborarla; la Russia - è indispensabile - dovrà essere del gioco, e fare per intero la sua parte. In altre parole tutta l’Europa, quella sognata forse con troppo anticipo da De Gaulle, dall’Atlantico agli Urali, deve unirsi per elaborare un progetto alternativo. Purtroppo una capacità del genere presupporrebbe un vero "colpo di stato" ai vertici dell’Impero. Ovvero un passaggio di leadership effettiva dagli USA all’Europa, di cui si stenta ancora a vedere i presupposti.

Conclusione? Questa guerra sarà lunga, ci ha già portato nel bel mezzo del paventato conflitto di civiltà e probabilmente non si risolverà se non in uno di questi due modi: o con il raggiungimento a lungo termine degli obiettivi prefissati, quelli insomma di Bush e soci, che avran dovuto comunque trovare un solido compromesso con gli stati-chiave della zona (Siria, Iran, Arabia Saudita, Turchia); o con un traumatico cambio di leadership all’interno dell’Impero, conseguenza di un impantanamento irreversibile tipo Vietnam. Questa sì sarebbe l’ultima battaglia degli USA come leader dell’Impero, ma non è detto che l’Europa sarà pronta a quel punto ad assumere il suo nuovo ruolo storico. Specie se avremo in giro ancora personaggi cinici e mediocri come Blair, o gregari allegri e scodinzolanti come Berlusconi.