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QT n. 15, 18 settembre 2004 Servizi

Bush tira il fiato

Una serie di eventi (dalla nascita del governo Allawi fino al massacro di Beslan) hanno cambiato la situazione a favore del governo americano.

Sono accadute molte cose dalla fine di giugno agli inizi di settembre. In poco più di due mesi la situazione in Irak, sotto il profilo politico e militare, è ampiamente mutata. Ma anche il clima generale, l’atteggiamento dell’opinione pubblica mondiale sembrano a una svolta. Vediamo separatamente questi due punti.

In questa pagina: immagini da Beslan.

L’amministrazione Bush giungeva a fine giugno in crisi d’affanno: lo scandalo immenso delle torture sui prigionieri, l’imperversante minaccia di Moktada al-Sadr e lo stillicidio quotidiano di soldati della coalizione, l’opinione pubblica interna al minimo storico dei consensi, per non parlare di quella internazionale e, infine, la carica inarrestabile dello sfidante elettorale Kerry dato ormai per vincente… Oggi questo scenario non c’è più: un paio di mosse azzeccate e soprattutto l’aiuto insperato di altri avvenimenti hanno rimesso Bush saldamente in sella. Non solo nelle prospettive di riconferma alla Casa Bianca, ma persino in quella di vedersi riconosciuta da una più ampia platea nazionale e internazionale la "bontà" delle sue intuizioni e della sua politica globale di guerra al terrorismo.

La prima mossa azzeccata è costituita dall’avvio anticipato di un governo irakeno, governo-fantoccio indubbiamente, ma che concede agli USA diversi vantaggi. Ad esempio, il "lavoro sporco" può essere delegato in misura crescente alla polizia irakena e al neonato esercito di Allawi: torture, rastrellamenti, sparatorie sulla folla (come s’è visto di recente a Najaf) non sono più di esclusiva pertinenza dei marines; le perdite in uomini cominciano ad essere meglio ripartite tra marines e soldati irakeni; inoltre, le proteste e le richieste pressanti della popolazione hanno ora come primo e naturale referente l’amministrazione civile irakena e non più i comandi militari americani e alleati.

La seconda mossa azzeccata è stata la gestione complessiva della crisi d’agosto a Najaf: gli americani sono riusciti a neutralizzare Moktada al-Sadr prima battendolo sul campo con una carneficina dei suoi seguaci, quindi costringendolo a piegare la testa e a umiliarsi di fronte al grande ayatollah al-Sistani, il suo nemico giurato. E qui probabilmente si situa la vera svolta sul piano politico e militare di cui si diceva. Al-Sistani e gli americani certamente non si amano, ma con la risoluzione della crisi d’agosto a Najaf sono addivenuti a un tacito ma solido accordo. Al-Sistani è il nuovo uomo forte della situazione e la gerarchia sciita da lui rappresentata si è vista riconosciuto il ruolo di contraente principale nel patto per la costruzione del nuovo Irak. Agli americani questo facilita le cose: è sempre meglio trattare con qualcuno che dimostra di poter controllare la situazione sul campo, non importa chi sia.

Ma c’è di più. Al-Sistani, di origine iraniana, rappresenta anche il naturale collegamento con la potenza regionale, l’Iran, che certamente non era estranea agli sviluppi della crisi di Najaf e che, così pare, ha cessato di soffiare sul fuoco. L’Iran era particolarmente interessato a una conclusione non troppo traumatica della crisi d’agosto: ha potuto dimostrare di avere la capacità di influire pesantemente sul controllo della situazione interna irakena ma, non sposando la causa di Moktada al-Sadr, ha pure dimostrato di essere un interlocutore con cui è possibile scendere a patti. L’Iran ha evidentemente due obiettivi: preservare il proprio territorio da nuove avventure americane e rafforzare e stabilizzare la presa sciita sull’Irak. Quest’ultimo obiettivo corrisponde a una storica aspirazione della stessa maggioranza sciita irakena che ora, sia pure ambiguamente attraverso il governo fantoccio di Allawi, prende corpo.

La sciitizzazione del potere in Irak, dove domina una gerarchia religiosa transnazionale, che parla indifferentemente arabo e persiano, ricompone anche un’antica, storica frattura. Il territorio irakeno dall’epoca degli imperatori achemenidi sino all’avvento degli Ottomani fu stabilmente nell’orbita persiana: Ctesifonte, la capitale dell’impero persiano sassanide (III-VII sec. d.C.) è a due passi da Baghdad, e quest’ultima fu fondata nella seconda metà del VIII sec. dalla dinastia dei califfi abbasidi, notoriamente filo-iranici, che in tal modo sottrassero alla componente araba la direzione dell’impero musulmano, sino ad allora in mano ai califfi omayyadi di Damasco. Il dominio della componente sunnita sull’Irak, storicamente supportato dalla potenza ottomana prima e dagli inglesi dopo la prima guerra mondiale, è insomma una parentesi - certo lunga - ma che pare destinata ora a chiudersi.

Come si sarà intuito, qui sta per gli americani il nodo della questione: la pacificazione dell’Irak passa per un "via libera" alla sciitizzazione del potere previo accordo con l’Iran. Come a dire che gli USA sembrano pronti a fare un accordo col diavolo, pur di venirne fuori in qualche modo. Con quale entusiasmo dei paesi vicini (tutti sunniti) come Siria e Arabia Saudita, per non parlare della Turchia, lo si può immaginare. Tuttavia la strada è ormai segnata e, a meno di fatti che comportino un radicale ripensamento di progetti e strategie, è probabile che verrà percorsa fino in fondo, con i tempi che saranno necessari.

La pace con gli sciiti, in realtà, era già inscritta nella creazione del governo Allawi, che raccoglie i due maggiori partiti politici sciiti: il Da’wa, ben radicato nel territorio e storicamente il partito che sopportò il peso maggiore della resistenza anti-Saddam, e lo SCIRI, partito di esuli e fuorusciti che aveva le sue basi in Iran e che, per la sua sola presenza nel governo Allawi, indica chiaramente l’esistenza di un patteggiamento continuo USA-Iran.

Dal punto di vista religioso, la posizione di al-Sistani rappresenta la tradizionale linea quietista dello sciismo riassumibile in questi termini: nessun potere umano è legittimo, né può venire riconosciuto, ma ci si può tranquillamente convivere a patto che lasci in pace gli sciiti. Ora è fuori dubbio che gli sciiti hanno oggi maggiore libertà religiosa sotto il protettorato americano di quanto non ne avessero sotto Saddam, che perseguitava e faceva uccidere i leader religiosi, proibiva le processioni pubbliche sciite e addirittura impediva con la forza il pellegrinaggio ai mausolei di ‘Ali e Hosseyn nelle città sante di Najaf e Karbala. Non deve meravigliare dunque la straordinaria duttilità politica di questa gerarchia, pronta a trattare con tutti sottobanco, e a favorire persino la nascita del governo Allawi; sulla stessa linea è la recente presa di posizione del clero sciita, che in sostanza condanna gli attacchi alle truppe d’occupazione americane. Questa gerarchia vede in realtà a portata di mano la realizzazione di una storica aspirazione: la sottrazione ai sunniti del controllo del paese, se poi il "diavolo americano" dà una mano…

E’ chiaro che Moqtada al-Sadr rappresenta una componente (minoritaria) che aveva rifiutato questo schema, ma oggi sembra essere stato messo fuori gioco col beneplacito dei suoi ex-protettori oltre confine.

Ma veniamo agli altri avvenimenti che, provvidenzialmente, dal punto di vista dell’amministrazione Bush, sono "caduti dal cielo". Il primo è certamente il rapimento dei due giornalisti francesi che, comunque finisca, ha significato una sorta di rivincita morale di Bush su Chirac, consentendogli di mostrare urbi et orbi la bontà della sua tesi che il terrorismo islamico non farebbe distinzione tra occidentali buoni e occidentali cattivi. Il secondo episodio è quello della catastrofica risoluzione dell’assalto alla scuola di Beslan in Ossezia del Nord. Il quale ha significato per Bush: 1. un eccellente argomento a favore dell’impossibilità di trattare con il terrorismo internazionale; 2. un ulteriore argomento a favore della sua tesi sulla sfida globale lanciata dal terrorismo e la conseguente necessità di serrare le fila e continuare la lotta sul piano militare; 3. un ridimensionamento drastico della percezione delle colpe americane nell’orrore delle torture ai prigionieri in Irak, orrore che obiettivamente impallidisce di fronte alla ferocia del commando ceceno.

Quel che sembra uscire perdente dalla sequela degli avvenimenti appena ricordati è purtroppo la linea di Chirac e dell’ "Europa del no" alla politica irakena e mediorientale di Bush. La Russia, fino a ieri pilastro di questa fronda, oggi più che mai si trova appiattita sulla politica di Bush di lotta a tutto campo al terrorismo. Come è stato osservato da più di un commentatore, tra Bush e Putin è in atto una sorta di tacito accordo: a voi mano libera in Irak, a noi in Cecenia. Questo non aveva impedito a Mosca di appoggiare discretamente l’asse franco-tedesco, ma difficilmente questa ambiguità potrà continuare a lungo.

Eppure un successo, le cui reali conseguenze si potranno misurare solo nei prossimi anni, Chirac lo ha conseguito: è emersa finalmente una "opinione musulmana europea" attraverso i pronunciamenti delle autorità religiose musulmane in Francia e in qualche altro paese d’Europa che hanno preso le distanze nel modo più netto e inequivocabile rispetto alla politica dei rapimenti e dei massacri indiscriminati. Ma in Francia esiste una Consulta delle associazioni musulmane regolarmente riconosciuta dal governo e che, in questi frangenti, si è dimostrata un interlocutore all’altezza della situazione. In Italia, pare che siamo ancora alle schermaglie iniziali: consulta sì, consulta no, consulta ma…

La guerra globale al terrorismo di Bush, in conclusione, sembra oggi una prospettiva destinata a dominare incontrastata per i prossimi anni. All’Europa, a questa Europa divisa e inconcludente, forse spetta un compito più modesto ma su cui si concentrano le speranze di chi rifiuta la nuova crociata americana: quello di mantenere e sviluppare i contatti con l’Islam moderato e preparare, se Dio vuole, un futuro diverso corso degli eventi.