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QT n. 3, 7 febbraio 2004 Servizi

Iraq, guerra, democrazia

Riuscirà l’alleanza dei “buoni” a normalizzare il paese, o prevarrà l’odio anti-occidentale?

La strage di Nassiriya fece all’improvviso cadere la "foglia di fico" dell’intervento umanitario dei "buoni italiani" che non andavano a portare la guerra, ma solo disinteressati aiuti e amicizia fraterna. Da allora sono caduti altri soldati, e "aiutanti" a loro aggregati, quasi in ogni contingente straniero presente in Iraq. Il senso di questo stillicidio, lucidamente programmato dalla dirigenza della guerriglia nazionalista, è chiaro: chi sta in Iraq facendosi scudo dell’invasore americano viene trattato alla stessa tregua dell’invasore. La cattura di Saddam ha messo in chiaro che questa guerriglia continuerà anche senza di lui e che, soprattutto, la sua forza militare è costituita da una varietà di elementi eterogenei: certo, ex militanti del Ba’th al potere, ma anche "nazionalisti" e "patrioti", e soprattutto elementi esterni provenienti da ogni paese dell’ecumene arabo-musulmana (al Qa’eda, "volontari" arabi e non arabi, forse persino di provenienza occidentale).

L’Iraq di oggi, pur con tutti i distinguo possibili, fa venire in mente un po’ la Spagna della guerra civile: la difesa o l’abbattimento del governo repubblicano delle sinistre era divenuta, alla vigilia del secondo conflitto mondiale, una questione "di bandiera" e richiamava con una sorta di attrazione fatale tutta una serie di attori esterni: le potenze dell’Asse, le "brigate internazionali" di volontari sostenute discretamente da paesi democratici che preferivano dichiararsi neutrali o semplicemente non volevano lasciarsi coinvolgere troppo. Ecco, l’Iraq - assai più che l’Afghanistan - ormai si è trasformato agli occhi dell’opinione pubblica mondiale e degli attori politici della nostra epoca, in una questione di bandiera, su cui non è dato transigere, costi quel che costi. Per l’Occidente il regime di Saddam era la quintessenza del male, da abbattere e ricostruire su nuove basi, virtuose e "democratiche"; per il mondo arabo - che certo nel complesso non lo amava - quel regime ha finito per diventare il Davide che ha tenuto testa due volte al Golia americano prima di cadere in piedi, "armi alla mano".

E ora abbiamo da un lato la "guerriglia" (usiamo qui un termine un po’ neutrale che in Occidente viene tradotto con "terrorismo", in Iraq e in gran parte del mondo arabo con "resistenza") dietro alla quale si intravedono mani più o meno occulte, stati arabi che chiudono uno e anche due occhi per lasciar passare dalle frontiere "volontari" e rifornimenti; dall’altro, l’Alleanza internazionale dei buoni e virtuosi, che hanno deciso di trasformare il paese erede delle più antiche civiltà del mondo in un modello di democrazia e di rispetto dei diritti.

Ho già avuto modo di esaminare, su questa stessa rivista, ragioni e obiettivi dell’Alleanza internazionale dei "buoni e virtuosi" e soprattutto della potenza che la egemonizza; e di mettere in luce - cosa confermata dalle recenti, candide, rivelazioni di un ex-ministro di Bush - che il piano di conquista dell’Iraq era parte del programma "occulto" del partito che ha conquistato poi la Casa Bianca. Quanto avviene in questi ultimi mesi non sembra inficiare la razionalità e la solidità del progetto, tutt’altro. Molte pedine del Grande Gioco, lentamente ma inesorabilmente, vanno a occupare le caselle loro assegnate, o la mutano, come era auspicabile nelle previsioni del supremo duce della Alleanza dei buoni e virtuosi. Gheddafi, l’irriducibile, ha fatto atto di contrizione e si è messo a collaborare con zelo di neofita nella caccia al terrorista; la monarchia dell’Arabia Saudita, almeno da maggio dell’anno trascorso, ha lanciato un generale repulisti nel suo regno abbondantemente sospettato di infiltrazioni terroristiche; Assad figlio, il giovane erede della grande volpe del Medio Oriente, si sbraccia a lanciare segnali di disponibilità e di collaborazione; l’Iran di Khatami (presidente eletto) e di Khamenei (il dominus reale), collabora senza riserve a contenere e frenare gli sciiti irakeni che, di fatto, garantiscono alle truppe dell’ Alleanza in tutto il sud dell’Iraq una relativa tranquillità. Ma all’attivo c’è dell’altro. Come prevedibile, la fronda franco-tedesca ha mostrato il fiato corto: in cambio di un po’ di contratti per la ricostruzione, Chirac e Schroeder si sono affrettati a attenuare la loro opposizione e anzi daranno una mano anche all’ONU…

Un bilancio lusinghiero dunque, per l’Alleanza e il suo duce invitto? Per ora non c’è motivo di dubitare che Bush la pensi diversamente, visto che anche i sondaggi sulla sua popolarità (le elezioni ormai incombono) lo confortano come non mai. Ciliegina sul tutto, persino quel discolo di Sharon sembra aver messo la testa a posto e si dà da al dialogo persino con quelli di Hamas, ossia con i "cattivi" che più cattivi non si può, i quali, incredibile a dirsi, propongono persino tregue e patti al nemico di sempre. A ragione Bush può oggi snobbare la spinosa faccenda delle armi di distruzione di massa che non si trovano, e puntare sugli effetti miracolosi dell’intervento americano:

1. l’Occidente ora sta ben piantato al centro della scacchiera medio-orientale, sopra giacimenti inestimabili;

2. gli stati intorno da canaglie (vere o virtuali) si sono tutti trasformati in stati virtuosi;

3. la via della pace tra Israele e palestinesi sembra per la prima volta in diecesa

Ma le voci positive del bilancio finiscono qui. Costruire la democrazia in Iraq si mostra compito arduo, e non solo per le note ragioni: divisioni e rivalità etnico-tribali senza fine, incomponibilità del confronto sciiti-sunniti in uno stato dove la maggioranza sciita, vincendo le auspicate elezioni libere, conquisterebbe a man bassa tutte le leve del potere estromettendo l’odiata minoranza sunnita compromessa col vecchio regime. L’ Alleanza evidentemente non si può permettere di creare un secondo stato governato dal clero sciita, accanto all’Iran degli ayatollah, cui lo sciismo irakeno è strettamente, anzi organicamente, legato. Si arriverebbe al paradosso che per "democratizzare" l’Iraq con libere elezioni, si creerebbe una nuova repubblica islamica teocratica…

Ma le vie della real-politik sono infinite come lo sono le vie del Signore e forse, chissà, nel giro di qualche anno, potremmo anche trovarci di fronte ad un Iran e ad un Iraq saldamente in mano a una gerarchia sciita non più ostile al Satana americano e che, pur di garantirsi la sopravvivenza, avrà stretto un solido patto col diavolo… La questione della "democrazia" verrebbe nel frattempo discretamente fatta sparire dalle prime pagine dei media e dai proclami dell’Alleanza.

Niente di strano, anzi tutto nel segno della continuità: la storia del secondo dopoguerra è segnata da questo gemere di "solidi patti" tra la più grande democrazia del mondo e fior di dittatori e generali mediorientali in nome della sicurezza dei commerci e dell’Ordine Internazionale.

Ma è possibile anche un altro scenario, i cui presupposti sono tutti già presenti. L’odio anti-americano e anti-occidentale nell’opinione pubblica araba va montando come rilevano tutte le indagini demoscopiche all’indomani delle guerre in Afghanistan e in Iraq. Come reagiranno queste masse, su cui il verbo degli agitatori religiosi sembra fare presa ormai senza ostacoli, di fronte all’azione dei rispettivi governi divenuti, per convinzione o convenienza, sempre più filo-occidentali? Con gli americani alle porte, governi autoritari come quelli del generale Musharraf in Pakistan o di re Fahd in Arabia Saudita, si vedono costretti ad accentuare la svolta filo-occidentale e l’azione repressiva interna nei confronti dell’islam fondamanentalista; anche il governo di Mubarak in Egitto si adegua. Oggi, è il dato geopolitico più rilevante, tutto il quadro dello scacchiere del Medio Oriente è cambiato: al suo centro c’è una "colonia" americana armata fino ai denti (Iraq-Afghanistan), intorno ex-stati "canaglie" intimoriti e sulla difensiva (Iran, Siria, Libia). E poi ci sono i tre stati-chiave sopra nominati: Egitto, Pakistan e Arabia Saudita. I tre, alleati solidi degli Stati Uniti, dall’indomani dell’attentato dell’ 11 settembre, sono entrati in fibrillazione e sopportano le maggiori spinte destabilizzanti al loro interno. I tre stati, non direttamente minacciati dagli Stati Uniti (sono, dicevamo, alleati di lunga data dell’Occidente), si trovano in una situazione a dir poco schizofrenica. Le élites al potere non possono che continuare la politica filo-occidentale di sempre, ma avendo a che fare con masse esarcebate dalla crisi economica (specialmente in Egitto e Pakistan) e con una opinione pubblica in cui lo spirito e l’animosità anti-americana e anti-occidentale appaiono inarginabili. E si tratta di paesi-chiave nel mondo islamico (sunnita) per varie ragioni. Per ragioni demografiche, essendo Egitto e Pakistan i due paesi più popolosi dell’area; per ragioni storico-religiose: l’Arabia custodisce i luoghi santi, l’Egitto ha nell’Università religiosa di al-Azhar il centro di pensiero e di elaborazione teologica più prestigioso di tutto il mondo musulmano; infine, non è un caso che da questi tre paesi siano partite negli ultimi due secoli tutti i movimenti di riforma (evolutiva o involutiva) e le idee più rivoluzionarie. In Egitto era partito alla fine dell’ ‘800 il movimento riformista e modernizzatore di Muhammad ‘Abduh, e sempre in Egitto, negli anni ’20, nasceva il movimento contrapposto dei Fratelli Musulmani, antesignano di tutti i fondamentalismi di oggi.

L’Arabia più o meno negli stessi anni diventa un regno conservatore che erige l’ideologia rigorista wahhabita a "credo" ufficiale del paese, divenendo da allora un faro (e la cassaforte) per tutta la propaganda sunnita di orientamento integralista (Osama Bin Laden esce di lì…); nell’India musulmana, ancora sotto il dominio britannico, sulla scia dei Fratelli Musulmani si forma la Jiami’at-i Islami ("Società islamica") che dagli anni ’40 in poi eserciterà un costante influsso sulla storia dei musulmani indiani prima, e del Pakistan poi, favorendo quella presa sempre più forte del fondamentalismo sulle masse con cui ha a che fare oggi il traballante governo del generale Musharraf.

Ecco, è in questi tre paesi- chiave che si gioca il futuro dell’area. E’ qui soprattutto che monta inarrestabile il risentimento anti-occidentale, fomentato da un fattore che si tende di solito a sottovalutare: il "senso dell’onore" del mondo arabo, e islamico in generale, ferito dalle "offese" arrecate all’integrità e all’indipendenza dei territori musulmani (la Dar al-Islam, o "casa dei musulmani") da potenze straniere. E’ qui che cresce l’appello alla nuova jihad intesa come "guerra di liberazione", come guerra difensiva. Che oggi viene propagandata - non senza buoni argomenti tratti dalle scritture sacre (Corano, hadith o tradizioni profetiche) - come dovere individuale di ogni buon musulmano. Facile è per la propaganda estremista presentare le élites filo-occidentali oggi al potere nei tre stati-chiave su menzionati come un gruppo di rinnegati e di apostati…

Ed è qui che il progetto della grande Alleanza occidentale rischia di scontrarsi con ostacoli invalicabili: non c’è infatti progetto di portare democrazia e rispetto dei diritti che tenga di fronte all’urgenza (che, abbiamo visto, si tramuta poi in "dovere" religioso) di liberare le terre islamiche da un invasore straniero e per di più non-musulmano. In questo contesto si può comprendere persino la rivalutazione nell’opinione pubblica araba del tiranno Saddam che era sì spietato e liberticida, ma ha fatto due "eroiche" guerre contro l’invasore infedele.

Insomma, il progetto di portare la democrazia in Iraq e di farne un modello per tutti gli stati della regione ha qui il suo tallone d’Achille: finché apparirà (e come potrebbe apparire diversamente?) il progetto dello Straniero occupante non potrà conquistare né le menti né i cuori degli arabi e dei musulmani in generale. Molti dei quali oggi, per usare una immagine retorica ma efficace nel nostro contesto, hanno solo "sete di vendetta", di lavare le macchie dell’onore ferito, le umiliazioni subite sul campo di battaglia e sul "campo dei mass media" (si pensi all’incauta ostentazione in tutti i canali televisivi del mondo del prigioniero Saddam). Il rischio incombente purtroppo è quello di un inasprimento del confronto tra questo Occidente "buono e virtuoso" che vuole esportare la democrazia (ancora una volta niente di nuovo: in epoca coloniale si diceva: "portare la civiltà"…) e il mondo arabo-musulmano; confronto che, magari a seguito di nuovi attentati spettacolari del tipo delle Torri Gemelle, potrebbe avvitarsi pericolosamente in direzione del paventato "scontro di civiltà".

Si apre ora una gara contro il tempo. Riuscirà l’Alleanza dei "buoni e virtuosi" a democratizzare, normalizzare e omologare il mondo arabo-musulmano, prima che la situazione in questa area del pianeta si avviti in una spirale irreversibile, segnata da odio e antagonismo irreversibili? Questi due scenari, la forzata omologazione-normalizzazione dell’area oppure un durevole "conflitto di civiltà", ci stanno oggi di fronte, ed entrambi - è certo - costeranno all’una e all’altra parte decenni di dolore e lacerazioni, di odii e incomprensioni.

Tutto questo ci preoccupa e sembra, ahinoi, corrispondere a una profezia contenuta nel Corano a proposito delle sette e delle religioni contrapposte: "Se il Signore avesse voluto, avrebbe fatto di tutti gli uomini una sola comunità; ma essi continueranno nelle loro discordie, eccetto quelli di cui Egli avrà pietà" (XI, 118-119),

A questa visione poco rassicurante segue una spiegazione, che riporta tutto al superiore disegno divino, e che tuttavia suggerisce una via d’uscita: "Se Dio avesse voluto avrebbe fatto di voi una comunità unica, ma ciò non ha fatto per mettervi alla prova in quel che vi ha dato. Gareggiate dunque nelle opere buone, ché a Dio tutti ritornerete; allora Egli vi informerà di quelle cose per cui ora siete in discordia" (V, 48).

"Gareggiate dunque nelle opere buone"; ma ci sarebbe da domandarsi: dove sono finiti gli "uomini di buona volontà"?