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QT n. 8, 19 aprile 2003 Servizi

Gli Stati Uniti e la gestione del dopoguerra

Il disegno politico ed economico americano, i suoi costi e i suoi rischi.

Roberto Tamborini

Al prof. Roberto Tamborini, docente presso il Dipartimento di Economia dell’Università di Trento, abbiamo rivolto le seguenti domande, alle quali ha risposto con l’intervento riportato in queste pagine:

- I contrasti fra Bush e Blair e quelli fra nazioni interventiste e non, sono ora incentrate sul tema del governo del dopoguerra: un protettorato americano o un rapido passaggio a una piena potestà irakena? E quale ruolo per l’Onu, garante dei diritti degli sconfitti?

- Come valuta questo passaggio, probabilmente illuminante delle motivazioni della guerra, e del corso complessivo della politica estera americana?

- Attorno alla ricostruzione c’è uno sgomitare delle varie nazioni: par di capire che sarà un ottimo affare, in quanto sovvenzionato dagli irakeni stessi, attraverso il loro petrolio. "E’ un assalto alla diligenza" - ha commentato in Tv un esule irakeno. Dove potrà portare il combinato disposto di governo dei vincitori, appalti ai paesi amici, gestione del petrolio per pagare la ricostruzione? Il principio di Condoleeza Rice, "chi ha pagato con il sangue, gestirà gli affari" non finisce paradossalmente con l’avvalorare lo slogan pacifista "no blood for oil"?

- Non è detto che tutto questo avvenga in un contesto di completa pacificazione; anzi, è probabile un certo periodo in cui ci siano forme di resistenza, guerriglia, terrorismo. Si parla di intervento della Nato e dell’Italia. Vale la pena entrare in questo ginepraio? Non si corre il rischio di versare sangue per il petrolio e per gli appalti, mettendo a rischio i rapporti con il mondo islamico?

Come (pochi) osservatori seri e attenti hanno avvertito sin dall’inizio dell’operazione Irak, la guerra guerreggiata va intesa come un tassello in un mosaico molto più vasto, complesso e ancora largamente incompleto. Per ora sappiamo solo il titolo dell’opera in corso: l’ordine internazionale dopo il Muro di Berlino. Certamente la gestione del dopoguerra irakeno è un altro tassello importantissimo per capire un poco meglio il quadro complessivo della politica estera americana. Per il momento sembrano emergere con una certa nitidezza solo alcuni tratti.

Primo: l’operazione Irak è stata il banco di prova di una dottrina politico-economica in gestazione da tempo nelle componenti cosiddette "neoconservatrici" della destra americana, una "opportunità" storica (il termine non è mio ma di Condoleeza Rice) creata dall’attacco dell’ 11 settembre.

Secondo: uno dei pilastri di questa dottrina è l’utilizzo incondizionato (cioè senza auto-limitazioni) delle prerogative offerte dal ruolo di unica superpotenza planetaria degli Stati Uniti, che comporta: affermazione del diritto di difesa della sicurezza e dell’interesse nazionale dentro e fuori i propri confini, esercizio della egemonia mondiale nel governo dell’economia e della politica globali, e perciò mani libere da stringenti accordi multilaterali, accordi limitati per obiettivi e a tempo determinato. Un corollario importante è che trattative, accordi, strategie si fanno a Washington (Casa Bianca) e non a New York (Palazzo di Vetro), si fanno tra Stati nazionali le cui decisioni non hanno, né hanno bisogno di avere altra legittimazione che quella del reciproco riconoscimento politico-diplomatico, e il loro esito dipende dalla "potenza" relativa degli Stati stessi. Data l’assoluta supremazia americana, l’esito di ogni e qualsivoglia trattativa è segnato: si possono ottenere benefici dall’amicizia benevolente dell’America, ma non concessioni sostanziali su qualunque materia che essa ritenga di dover risolvere nel proprio esclusivo interesse.

L’Italietta di Berlusconi ha preso atto e si è adeguata. Può davvero meravigliare che invece le "seconde potenze", Francia, Germania, Russia e Cina, si siano irrigidite davanti a questa prospettiva, e abbiano anch’esse colto l’"opportunità" della guerra irakena per far esplodere il problema?

I critici e avversari radicali degli Stati Uniti potrebbero osservare che la visione neoconservatrice che ho appena descritto è in continuità con la loro innata vocazione imperiale.

Ma non è così. Primo: i neoconservatori sono in circolazione da molti anni, ma non hanno mai attecchito prima nelle amministrazioni repubblicane; in particolare erano stati messi alla porta da Bush padre, e infatti la prima guerra del Golfo non è comparabile con la seconda né nei presupposti né nella condotta diplomatica e militare. Secondo: lo stesso Bush figlio è stato eletto (?) sulla base di un programma moderatamente conservatore, incentrato semmai su un altro tratto ancestrale della destra americana, l’isolazionismo, occuparsi dei fatti propri e delle faccende del grande continente che sta tra New York e San Francisco non curandosi troppo di ciò che avviene al di là dei due mari su cui si affacciano le due metropoli "di confine".

Terzo, e più importante: la dottrina neoconservatrice, almeno per la parte economica (su cui ho maggior competenza) ha molti tratti comuni con teorie e prassi in voga nell’ Europa tardo-imperiale tra le due guerre mondiali (e, ahimé, non estranee allo scoppio della seconda), in particolare il rifiuto del multilateralismo e della cooperazione politico-economica, e la stretta connessione tra interessi economici e "potenza" politica dello Stato nazione. Allora, da un lato va ristabilita la verità storica ossia che la "vecchia Europa" non è quella del "fronte del no" a questa visione delle relazioni internazionali, ma quella delle piccole cancellerie della "coalizione dei volonterosi", nella quale esse possono ostentare il proprio euroscetticismo e il primato della politica e dell’economia degli Stati nazionali alla vigilia del varo della Carta costituzionale europea, riportando l’orologio delle relazioni internazionali al tempo antecedente alla seconda guerra mondiale.

Dall’altro lato, va ricordato che dopo la seconda guerra mondiale gli Stati Uniti hanno partecipato attivamente al superamento ideologico di quelle visioni, sono stati protagonisti della creazione delle due maggiori istituzioni multilaterali esistenti, le Nazioni Unite e la Nato, e - non senza senza strappi e forzature - hanno sostanzialmente mantenuto l’esercizio della loro leadership e della loro "potenza" entro i limiti di tali istituzioni.

Come si diceva prima, è stato l’attacco alle Torri gemelle a catapultare l’amministrazione Bush in una complicatissima e insanguinata arena internazionale con evidentissimo imbarazzo, impreparazione nonché conflittualità tra il continuismo moderato di Powell e il neoconservatorismo di rottura di Rumsfeld. La campagna afghana è stata fatta alla maniera di Powell, quella irakena alla maniera di Rumsfeld. Quindi siamo a un bivio nella rotta degli Stati Uniti rispetto al resto del mondo, e l’enigma, che ci riguarda tutti molto da vicino, non è ancora sciolto. Per questo la direzione della prossima mossa, la gestione del dopoguerra, sarà estremamente importante.

Ho pochi dubbi sul fatto che, nella fase della ricostruzione dell’Irak, ci sarà un assalto alla diligenza, con gli Stati Uniti nel duplice ruolo dello sceriffo in quanto padrone della diligenza. Per due ragioni. La prima è che da sempre le guerre procurano affari, si fanno affari per vendere le armi che distruggono, si fanno affari per ricostruire. Il rapporto tra questa guerra e l’economia sarebbe troppo lungo da analizzare in questa sede, e mi limito ad osservare che, sebbene io non creda nella tesi che questa guerra sia motivata principalmente da interessi economici, tuttavia nel mondo in questo momento c’è una particolare fame di affari, esasperata proprio dal lungo anteguerra, e molti quindi si aspettano di essere risarciti dal dopoguerra.

La seconda ragione è strettamente legata alle considerazioni che ho svolto prima, che mi portano a pensare che il lato economico del dopoguerra sarà, non una novità, ma un "evento" particolarmente esibito: uno spettacolo vietato ai minori, insomma, come preannuncia l’affermazione un po’ brechtiana della Rice: "Chi ha pagato con il sangue, gestirà gli affari". Se la scelta di come costruire il nuovo Irak segnerà un altro punto a favore dei neoconservatori, e se essi coglieranno un’altra "occasione" per dispiegare la loro visione del mondo, allora vorranno rendere molto chiaro ed evidente uno dei loro princìpi ispiratori che ho ricordato prima, ossia la contiguità e continuità tra "potenza" politica, militare, ed economica, in cui l’una sorregge, alimenta e giustifica l’altra. In questa visione, lo scambio "Blood for oil" è del tutto ammissibile, se necessario. Tuttavia, anche i neoconservatori più estremi credono che gli affari debbano svolgersi con ordine, in particolare stabilendo con chiarezza (e se necessario con la forza) chi è il padrone di cosa, e quali sono le regole del gioco. In ogni singolo Stato questo compito è affidato al governo, alle leggi e alla polizia, ma siccome non c’è nulla al di sopra e al di fuori dei singoli Stati, ecco che nell’arena internazionale dell’Irak governo, leggi e polizia saranno, necessariamente, esercitati dall’attore legittimato dalla propria "potenza", cioè il vincitore. Dunque niente risoluzioni dell’Onu, niente amministrazioni internazionali, niente accordi multilaterali: lo sceriffo-padrone che presidia la diligenza stilerà una ferrea lista di aventi diritto, e poi ne distribuirà loro, davanti agli occhi del mondo, il ricco carico, e la loro soddisfazione sarà una misura ulteriore della giustezza di questa politica.

Le incognite relative ad una non completa pacificazione in Irak, (guerriglia, atti di terrorismo, ecc.) sono l’altro lato della medaglia dorata che ho prima descritto. Attenzione! Non ci sono solo profitti da distribuire; ci sono anche enormi costi da sostenere. Le stime di economisti americani variano dai 120 ai 1.500 miliardi di dollari a seconda della durata e dell’andamento dell’occupazione e delle connesse attività amministrative e militari di ordine pubblico, pacificazione, ecc. Se l’amministrazione Bush non resisterà alla tentazione, o alla necessità, di farsi aiutare a fare lo sceriffo, in particolare dai caschi blu, il quadro economico-politico di smagliante chiarezza che si profila nelle menti neoconservatrici sarà offuscato. Se saprà resistere, dovrà fare i conti. Mentre i profitti della ricostruzione andranno quasi interamente a imprese private, i costi ricadranno sui cittadini contribuenti: le tasche da cui i dollari usciranno e quelle in cui entreranno non saranno, per la gran parte, le stesse (neanche se mettiamo in conto che i profitti possono produrre un po’ di posti di lavoro e di salari). Bush aveva già iniziato a tagliare le tasse (soprattutto alle imprese e alle fasce alte di reddito), ora ha annunciato una sospensione del programma, ma non può realisticamente aumentarle. Quindi il Tesoro dovrà indebitarsi, mentre gli Stati Uniti sono già uno dei paesi più indebitati al mondo.

Chi sono i più grandi finanziatori del debito americano? Giappone, Cina, Unione Europea! Vale a dire, se Bush non vorrà spremere i propri elettori (fra un anno e mezzo si vota, e col patriottismo non si paga il mutuo della casa) o dovrà rassegnarsi a dividere oneri e onori con gli odiati paesi del "no" sotto i riflettori della politica internazionale, oppure dovrà chiedere i loro denari passando attraverso il delicato e volatile meccanismo dei mercati finanziari.

Non c’è spazio qui per spiegare i diversi scenari che possono svilupparsi, ma i rischi e i rovesci per la tenuta economia e politica della Weltanschaaung neoconservatrice possono essere molto seri, tanto da essere attaccata dagli anticorpi della democrazia americana prima di riuscire a re-infettare il mondo con le febbri ideologiche del XX secolo.