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QT n. 8, 19 aprile 2003 Servizi

Le guerre di Salomon

Il fotografo e reporter trentino ci parla del suo mestiere difficile.

L'hanno sequestrato in Uganda (1990), si è introdotto illegalmente in Kuwait vestito da soldato dell’ONU durante la guerra del Golfo (1991), gli hanno sparato addosso nel Kosovo e in Bosnia (1998), ha rischiato la pelle nelle zone calde della Terra almeno un’altra dozzina di volte. Eppure quando lo incontri e lo conosci l’impressione che ne ricavi non è quella di una testa matta ma di un uomo dai modi gentili, con i piedi ben piantati per terra e le idee molto chiare.

Afghanistan, 1983: mujahiddin in lotta contro l'Armata Rossa.

Oltre che fotografo, Salomon per molti anni è stato operatore RAI. Innumerevoli i suoi servizi da ogni parte del mondo: Perù, Algeria, Afghanistan, Argentina, K2, Iran, Cuba, Vietnam. Partiamo dal conflitto Usa-Irak.

In questo conflitto è stata varata dal governo statunitense (Rumsfeld in primis) la formula "embedding", cioè giornalisti e operatori "aggregati" alle truppe. Ma come scrive Giorgio Bocca sull’Espresso c’è la probabilità concreta che "i cronisti assegnati alle unità combattenti applichino una censura spontanea e patriottica: come possono non elogiare e difendere i soldati di cui sono compagni di avventura?. Non viene concessa loro una libertà solo apparente?

"Sì, è andata così. Ho visto le imagini in TV e sono stato attento. La Maggioni del TG1 è partita dal nord dell’Irak, ma di immagini interessanti s’è visto davvero poco. Si continuava a vedere il soldato americano che si faceva la barba o quello che attraversava la collinetta con il bazooka.… Erano sempre le stesse immagini. La mia impressione è che non ci sia stata vera libertà e documentazione del conflitto. La ferita del Vietnam con i fotografi e gli operatori che portarono l’atrocità di quella guerra nelle case degli americani è ancora aperta".

Infatti nella guerra del Golfo in governo USA oscurò la guerra. TV e giornali furono oscurati.

Irak, '91: l'annientamento della colonna di carri irakeni sull'autostrada Bassora-Bagdad.

"Nel ’91 era impossibile fare informazione. Eri costantemente seguito da un arabo al servizio degli americani che alla fine delle riprese visionava ciò che avevi filmato. La situazione si è sbloccata quando un maggiore italiano della NATO mi diede una divisa dell’esercito. A quel punto, come finto operatore militare ho potuto girare liberamente: salire sugli aerei, seguire i militari ed entrare con loro in Irak. E poi è successa una cosa strana: alcuni alti ufficiali della NATO, non italiani, mi hanno fatto spegnere la telecamera e sono iniziate le confidenze. Ad esempio, la strage di Bassora, dove ci fu una carneficina di soldati irakeni (si parlò di settantamila uomini uccisi) è stata voluta e provocata dallo stesso Saddam. Sì, perché quelli erano soldati suoi, ma appartenevano alla corrente filoiraniana ostile al suo regime e quindi ritenuti pericolosi per il dittatore. Saddam li ha fatti ritirare sui carri armati in mezzo al deserto senza la minima copertura aerea. Il problema è che qualunque pivello uscito dall’accademia militare sa che una simile mossa è un suicidio. E per una eventuale copertura aerea qualche Mig gli era rimasto. La strage della colonna di Bassora è stata opera degli americani, ma a provocarla è stato Saddam.

Per quanto mi riguarda, anch’io ho notato che alcune cose erano diverse da come le raccontavano. Hanno scritto che i mari attorno al Kuwait erano piene di mine, in realtà ce n’erano pochissime. E poi anche a Kuwait City non si sono viste scene di guerra. Una sola cannonata al Meridian Hotel. Ho fatto un sacco di foto alla città, era intatta".

Torniamo all’attualità. Per quanto riguarda l’informazione, in quest’ultimo conflitto sono emerse con ancora maggior forza due realtà che già erano comparse in Afghanistan: la presenza di una TV araba, Al Jazeera, e una netta prevalenza femminile tra i giornalisti inviati di guerra.

Alto Adige, 1963: attentato dinamitardo.

"Ritengo importante la presenza di una TV fuori dal coro come Al Jazeera e non credo, come sostiene Rumsfeld, che sia stata uno strumento della propaganda irakena. A questo punto, forse non è stato un tragico errore che gli americani abbiano colpito la sede di questa emittente e preso a cannonate i cronisti della Reuters alloggiati all’Hotel Palestine: questi giornalisti, lavoravano, guarda caso, anche per Al Jazeera.

Per quanto riguarda la presenza delle giornaliste femminili, sono piuttosto scettico. Ogni tanto mi sembra di assistere a una sfilata di moda, anche se la Gruber e soprattutto la Botteri sono molto in gamba. Hanno mostrato alcune belle immagini di Baghdad, ma le riprese effettuate fuori dalla loro postazione all’hotel Palestine si assomigliano un po’ troppo. E siccome è difficile che i giornalisti facciano servizi e riprese così simili, se ne deduce che sono state accompagnate e sorvegliate dagli irakeni (‘Qui puoi filmare, qui no’).

Ex Jugoslavia, 1998.
Solo adesso che il regime è caduto si iniziano a vedere immagini interessanti ed efficaci.

Spesso poi non si considera il ruolo di chi rischia veramente, cioè l’operatore che effettua le riprese con uno scimmiotto di trenta chili sulle spalle (la telecamera). E’ l’operatore che decide le riprese da effettuare per il servizio, dispone di una sua autonomia. Ovviamente c’è collaborazione con il giornalista, anche se spesso l’operatore rimane nell’ombra. I vari Bellano, Cravero e compagnia (tutti operatori della Rai) non vengono mai citati, ma rischiano più di tutti, così come i fotografi. Il bollettino dei morti, purtroppo, lo conferma.

In Bosnia la vita di un operatore valeva 800 dollari, che gli ufficiali di Karadcic e Milosevic pagavano ai cecchini. Lì rischiavamo la vita ogni secondo: mi hanno sparato addosso più volte e mi sono trovato in mezzo a situazioni davvero difficili; ma la guerra nella ex-Jugoslavia è stata una delle poche in cui c’è stata vera documentazione. Si sono viste immagini e foto terribili, che hanno fatto capire veramente tutto il dramma che c’era dietro questa guerra. Dietro tutte le guerre. Per quanto riguarda l’attuale situazione irakena è adesso, in questi momenti in cui il paese è allo sbando, che fotografi, operatori e giornalisti rischiano di più. E’ il tempo delle vendette, delle razzie e dei furti dopo trent’anni di dittatura. Essere laggiù è pericolossissimo perché non sai chi hai di fronte, non hai più di fronte una divisa.

Un’ultima domanda, una mia curiosità. Cosa spinge il fotografo, l’operatore o il giornalista a rischiare la vita nelle zone di guerra? Il sentirsi più vivo vicino alla morte? L’amore per il rischio?

"No, no. Nel mio caso non ci sono queste cose. La spinta per me nasce dalla voglia di documentare e capire. Di comprendere, io per primo, e poi chi vede le mie foto o segue le immagini, cosa c’è dietro la guerra e le persone che la vivono.

Io non vado nelle zone calde per amore del rischio o cose simili, lì io ho paura e la paura è una buona compagna in queste situazioni. Ti dice quando è il momento di lasciare la presa. C’è un detto: l’alpinista più bravo è sempre quello che torna a casa".

E Salomon è sicuramente uno degli alpinisti più bravi, che calcola il rischio ma che conserva ancora intatto il gusto per l’avventura. Quello che si possiede da giovani e che non si dovrebbe mai perdere.