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QT n. 8, 19 aprile 2003 Servizi

Il mondo islamico e l’Occidente. E la Cina

L’Irak del “protettorato americano” e lo scenario prossimo venturo.

L’evento "occupazione americana" dell’Irak, a cose fatte, non si può negare che abbia lasciato di stucco l’opinione pubblica internazionale del più vario orientamento e persino molti osservatori che professionalmente si occupano di Medio Oriente e questioni annesse. I sostenitori dell’idea di una guerra-lampo così come quelli che paventavano (o magari auspicavano) un impantanamento degli anglo-americani sono rimasti apparentemente delusi.

La guerra è finita, sotto il profilo del "gioco" militare si può dire che non c’è stata partita o quasi. Eppure, le stesse autorità politiche e militari americane ammettono che molto lavoro resta da fare. Non è chiaro ad esempio né quanto tempo ci vorrà per debellare le ultime resistenze armate che si annidano ancora qua e là tra il deserto e le montagne, né se queste potranno dar vita a forme di guerriglia organizzata e duratura suscettibile, questa sì, di impantanare ingenti forze militari anglo-americane in compiti impropri di polizia e repressione interna. Questa è certamente la prospettiva più disastrosa per le forze della vittoriosa coalizione, e c’è da star sicuri che esse stanno già lavorando alacremente per esorcizzarla. L’atteggiamento della popolazione irakena, oggi in sostanza di attesa e curiosità quasi benevola, potrebbe rapidamente mutare in funzione dell’evoluzione degli eventi. Ma, quando si parla di popolazione irakena, ormai tutti lo sanno, si parla in realtà di un mosaico complesso di popoli (arabo, kurdo, turcomanno) e di osservanze religiose (sunniti, sciiti, cristiani di vari riti). Facile intuire come le reazioni, poniamo, a una recrudescenza della repressione interna contro una ipotizzabile guerriglia organizzata da elementi nostalgici del vecchio regime insieme a elementi fondamentalisti, potrebbe essere diversamente valutata da ciascuna di queste componenti.

Si potrebbe, in linea ipotetica, considerare una scaletta di "fedeltà" all’incipiente regime di protettorato anglo-americano che vede - allo stato delle cose- in testa i kurdi e in fondo gli sciiti. I patti stretti tra l’intelligence americana e la dirigenza kurda non sono del tutto noti, né è chiaro -non sarebbe la prima volta nello scenario mediorientale - se altri meno noti patti siano stati stretti alle spalle dei kurdi. Il loro contributo militare nel settore nord, ove le truppe americane erano scarse durante la campagna militare, è stato importante e evidentemente esige, dal punto di vista kurdo, una contropartita sostanziosa. Ma siamo tutti edotti ormai sulla diatriba turco-kurda e sul difficile equilibrismo cui si è trovata costretta la dirigenza anglo-americana per trarre il massimo vantaggio dalla cooperazione militare kurda senza urtare la suscettibilità dei turchi.

Diversi scenari possibili ci stanno ora di fronte, e tutti determinati dal problema principale del protettorato americano: il controllo politico-militare del territorio overo l’organizzazione pratica del peace-keeping.

Nell’ipotesi, non fantascientifica, di un precipitare della situazione interna a causa della guerriglia, della diffusione di attacchi suicidi e simili, con il rischio conseguente di portare il nuovo protettorato in una situazione di tipo palestinese, ecco che il Kurdistan potrebbe rivelarsi una importante carta di riserva per gli anglo-americani. Se, come appare ormai certo, lo scopo della campagna militare era quello di stabilire una forte presenza militare anglo-americana nella zona del Golfo per tenere a bada e se necessario "raddrizzare" gli stati-canaglia dei dintorni, gli angloamericani, messi alle strette da una guerriglia efficace, potrebbero essere tentati di: 1. ritirarsi dall’Irak centrale e meridionale per concentrarsi nel più fedele e disciplinato Nord kurdo; 2. concedere a quel punto la tanto sospirata indipendenza a uno stato kurdo nel Nord Irak in cambio della sua trasformazione in avamposto militarizzato della Nato in Medio Oriente.

I Turchi di certo si arrabbierebbero, ma dovrebbero obtorto collo abbozzare. A quel punto il resto dell’Irak, governato da una coalizione tutta araba a maggioranza sciita, dovrebbe pensare autonomamente a mantenere l’ordine interno e a rigare dritto sotto la minaccia del vicino avamposto kurdo-americano. I Kurdi, etnia di stirpe iranica quindi indoeuropea e di religione musulmana sunnita, potrebbero con il tempo e con una massiccia assistenza economica e militare statunitense, trasformarsi in una sorta di Israele musulmana, quanto a dire una enclave moderna e super-tecnologizzata stabilmente inserita o collegata alla Nato. E capace soprattutto, di espletare in futuro compiti di peace-keeping con forze militari musulmane: sarebbe per l’Occidente anglo-americano una specie di meravigliosa quadratura del cerchio! A Israele, alleato sicuro ma poco governabile, si aggiungerebbe un Kurdistan normalizzato e fidelizzato come efficiente cane da guardia dell’Occidente euro-americano nell’area mediorientale. Si tratta solo di uno scenario ipotetico, certo, ma tutt’altro che improbabile.

L’alternativa, data per probabile da taluni osservatori che
lavorano in centri di studi strategici o di geopolitica, è il coinvolgimento diretto, anche militare, della Turchia nel compito di peace-keeping. La Turchia ha la più efficiente e moderna macchina militare del Medio Oriente e una larga esperienza in compiti militari di contro-guerriglia. Si tratta però di una soluzione che presenta alcune fortissime controindicazioni, a partire dalla stessa opinione pubblica turca e settori importanti della dirigenza del partito islamico moderato oggi al potere, che male digerirebbero - o faticherebbero a spiegare al proprio elettorato - la trasformazione della Turchia in cane da guardia degli anglo-americani. Ulteriore, forse ancor più decisiva controindicazione, il nazionalismo panarabo, storicamente originatosi proprio da un forte sentimento anti turco-ottomano, si riaccenderebbe, o meglio potrebbe riesplodere come una santabarbara cui sia stata accostata una miccia, di fronte a un neo-imperialismo turco che si proponesse come guardiano e tutore dell’ordine (angloamericano) nel cuore del mondo arabo.

Ulteriore ipotesi, quella ufficialmente dichiarata e sbandierata dal governo americano: puntare sul rapido sviluppo di istituzioni democratiche e di un solido stato di diritto nell’Irak conquistato, che fungerebbe poi da modello e faro per altri stati della regione. Al contrario di quanto noi tutti, ormai esperti consumati di dietrologia, siamo portati a credere, questa potrebbe essere davvero la soluzione cui puntano i vincitori di questa guerra e per una ragione evidente: è, in linea di principio, la più economica sotto vari aspetti, a partire dalla considerazione che essa non comporta l’intervento di paesi limitrofi né la divisione dell’Irak. Un punto debole sta certamente nel fatto che essa richiede una lunga incubazione e la necessità di mantenere un protettorato politico-militare angloamericano per un periodo che va ben oltre i sei o dodici mesi ipotizzati dai più ottimistici osservatori. Ma esiste un altro punto critico: avviare il paese a dotarsi di istituzioni democratiche, dunque decise sulla base della regola della maggioranza, significa in pratica consegnare prima o poi l’Irak in mano alla componente sciita (60 % della popolazione attuale) che è stata duramente oppressa da Saddam e dalla minoranza sunnita. Quanto questo aspetto sia critico lo dimostra il recente assassinio di un leader sciita, appena giunto in patria dall’esilio, su cui gli americani contavano molto per il governo dell’Irak del dopoguerra. La consegna del paese agli sciiti in ogni caso non sarà consentita se non nel quadro di una sostanziale e decisa presa di distanza degli sciiti irakeni dall’Iran, la patria dello sciismo e stato-canaglia in cima alla lista dei "cattivi".

E qui si situa l’ultimo possibile scenario: gli anglo-americani, constatata la impraticabilità o la difficoltà di appoggiarsi alla maggioranza sciita, si vedrebbero costretti - ironia del destino - a riprendere proprio un caposaldo della politica interna dell’Irak dell’ultimo quarantennio: cioè a dover rimettere in sella la minoranza sunnita.

Ciascuno di questi quattro scenari avrà ripercussioni
diverse sulle varie componenti della popolazione irakena, come è evidente. Inoltre - ma qui il discorso si allargherebbe a dismisura - ciascuno di questi scenari possibili va inquadrato nella strategia angloamericana di lungo periodo, ovvero valutata entro la scala degli obiettivi che Bush e Blair si sono dati.

In un articolo precedente, ho fatto cenno al confronto cino-americano come sfondo più ampio (sebbene poco evidenziato nei media) della guerra ora agli sgoccioli, confronto che per certi versi rinnova il Grande Gioco che nell’Ottocento opponeva in Asia la Russia zarista all’impero britannico. In previsione della crescita esponenziale del PIL cinese che, secondo studi autorevoli, tra il 2010 e il 2020 dovrebbe superare quello degli Stati Uniti, le potenze guida dell’Occidente euro-americano hanno cominciato, dagli anni ’90 in poi, a utilizzare ogni pretesto per intervenire militarmente in Asia e stabilire importanti avamposti. Basi americane, o "centri di ascolto" supertecnologici dell’intelligence, da un paio di anni attivi tra l’Afghanistan e le repubbliche ex-sovietiche ad esso limitrofe; le truppe anglo-americane ora (e chissà per quanto tempo ancora) dispiegate in Irak; le preesistenti basi e i centri di comando sparsi tra l’Arabia Saudita e il Kuwait; l’ampia collaborazione con i servizi segreti di un paese-chiave come il Pakistan: tutti questi presìdi costituiscono altrettanti segnali o paletti della presenza occidentale in un’area che viene così militarmente marcata e in qualche modo dichiarata a chi deve intendere come "cosa nostra".

Il progetto strategico che esce dalla vicenda delle due guerre
irakene e di quella afghana è per certi versi sorprendente, se appena si cerca di andare altre la retorica e i luoghi comuni. L’Islam non è affatto visto come il nemico dell’America, bensì al contrario come l’area geostrategica che essa deve a tutti i costi acquisire, in modo stabile e sicuro, al proprio disegno di strategia imperiale. L’Islam occupa quell’area che si situa tra l’Asia anteriore e l’Asia centrale la quale diventa, nel confronto a lunga distanza tra Cina e America, il terreno di confine dei due imperi del XXI secolo, ovvero zona di inevitabile attrito (oltre che zona di risorse strategiche) e che è bene tenere sotto diretto controllo. Il mondo islamico di oggi, diviso esattamente come l’Europa degli anni ’40 tra stati nemici dell’America e stati infidi o non affidabilissimi, va "conquistato" all’Occidente perché, nel quadro geo-strategico sopra delineato, è destinato a diventarne parte essenziale. L’omologazione dei valori e delle istituzioni, delle strutture politiche ed economiche del Medio Oriente a quelli dell’Occidente, diventa allora un obiettivo strategico nel quadro del controllo stabile della zona.

In questo Grande Gioco e dentro questa complessa strategia (di lungo termine) pensata a tavolino e non certo elaborata l’altro ieri, vanno situati gli scenari possibili più sopra delineati.

E vanno situate pure le incognite maggiori. La prima delle quali è riferibile al mosaico delle popolazioni irakene (e delle osservanze religiose) di cui s’è detto. La seconda al "piccolo gioco" dei paesi limitrofi: dalla Turchia che non ha mai cessato di aspirare a qualche piccola ma significativa riappropriazione di zone irakene (evidentemente quelle legate alla presenza dei pozzi più ricchi), magari in chiave anti-kurda); all’Iran, che al momento è in situazione di cauta attesa ma che, se si sentisse direttamente minacciato, potrebbe soffiare sul fuoco dello sciismo estremista per creare problemi al protettorato americano in Irak; alla Siria infine, che, non a torto, si sente sotto il mirino di un ipotizzato prossimo attacco anglo-americano.

E qui abbordiamo la incognita maggiore: la reazione complessiva del mondo islamico inteso come Umma, comunità religiosa, che si vede, 200 anni dopo lo sbarco napoleonico in Egitto, nuovamente e traumaticamente invasa da potenze non-musulmane; e non in Afghanistan, bensì proprio nel cuore della sua storia ultramillenaria: la Baghdad capitale e centro ideale del più prestigioso periodo della storia musulmana (750 ca.-1258).

Il disegno anglo-americano ha una sua innegabile coerenza e anche una sua ineluttabilità a partire dai presupposti geopolitici sopra delineati. Ma ci si dovrà pur chiedere: quale sarebbe la reazione delle masse arabe di fronte a un prevedibile secondo (o terzo) round che vedesse la Siria (o l’Iran) nel mirino degli attacchi anglo-americani? La stessa Arabia Saudita e l’Egitto, ufficialmente paesi amici, sono da qualche anno guardati con crescente diffidenza dall’amministrazione americana che rinfaccia loro di non fare abbastanza contro il terrorismo, se non addirittura di rendergli la vita facile sottobanco. Il disegno strategico anglo-americano ha persino una sua chiarezza persuasiva, ma forse non fa i conti sino in fondo con le numerose incognite di cui s’è detto.

Venendo alle reazioni del mondo arabo, conviene
sempre distinguere tra le élites e le masse governate. Il protettorato americano, come appare evidente, è stato in sostanza accettato dalle élites dirigenti della stragrande maggioranza dei paesi aderenti alla Lega Araba che, nei recenti incontri ai massimi livelli, non sono andati al di là di generiche condanne e vaghe raccomandazioni, e di altrettanto generiche dichiarazioni di solidarietà col popolo irakeno sotto le bombe. Né questi paesi avrebbero potuto fare molto di più, tutti o quasi essendo legati a doppio filo al carro dell’Occidente euro-americano vuoi per via delle royalties petrolifere, vuoi per gli aiuti tecnici ed economici cui nessuno vuole veramente rinunciare, vuoi per vitali accordi commerciali. Così si assiste, nelle dichiarazioni ufficiali di molti governi arabi, a una singolare ma comprensibile schizofrenia comunicativa: ampie concessioni alla retorica anti-americana e anti-occidentale, per tenere buone le masse, insieme a più discrete ma sostanziose conferme di collaborazione fattiva con i "padroni del vapore". Alla nuova ortodossia islamica inoltre, rappresentata dal tradizionalismo wahhabita della potente Arabia Saudita, non può neppure essere dispiaciuto più di tanto vedere crollare le statue del capo del Baath irakeno, partito storicamente socialisteggiante e ateo e sempre arrogante (o talora mortalmente avverso) con le gerarchie religiose e con i paesi più conservatori.

L’incognita più grande, io credo, riguarda un po’ la psicologia delle masse arabe e la loro evoluzione nel prossimo futuro. Se il protettorato anglo-americano durerà più del previsto, se vi sarà un secondo round contro la Siria (o l’Iran), una incontenibile esplosione di sentimento e passionalità panislamica potrebbe davvero rendere la vita difficile ai governi interni e riattizzare e diffondere forme di terrorismo in tutto il Nord del pianeta. I movimenti estremisti, da un punto di vista propagandistico, avranno di che sguazzare nell’abbondanza. Un coinvolgimento diretto della Turchia nella gestione e nel peace-keeping dell’Irak avrebbe forse un altro tipo di conseguenze: una probabile riattivazione del confronto/scontro tra l’elemento arabo e l’elemento turco all’interno del mondo islamico. Insomma, in questa seconda ipotesi potremmo avere un riaccendersi di nazionalismo panarabo virulento, nello stile della vecchia lotta anti turco-ottomana di stampo coloniale, più che un revival di islamismo estremista. Nell’evolversi della situazione, ciò potrebbe anche rappresentare il male minore dal punto di vista degli anglo-americani; sarebbe invece e comunque un nuovo disastro per il mondo musulmano e un colpo probabilmente definitivo per il mito dell’unità della Umma islamica.

Una speranza diversa può venire dalla saldatura dei movimenti pacifisti euro-americani e arabo-islamici? Non credo a questa possibilità, se non a lungo (lunghissimo) termine. Si è detto che il movimento pacifista è legato alla presenza di una forte e libera opinione nei paesi ricchi del pianeta, solidamente organizzata e di lunga data. Tutte condizioni che, certo, si stenta a vedere nel panorama dei paesi islamici di oggi. Ma c’è una ragione più profonda che lascia poche speranze alla possibilità di uno sviluppo del genere prospettato. Il movimento pacifista si sviluppa di solito nell’opinione pubblica dei paesi che hanno il coltello dalla parte del manico e forti rovelli di coscienza, non di quelli che hanno il coltello puntato alla gola! Il protettorato anglo-americano sull’Irak, la presenza sempre più massiccia di strutture militari occidentali in territori musulmani prevedibilmente non aiuterà affatto la crescita di sentimenti pacifisti nel mondo arabo-islamico. Al contrario, si può facilmente profetizzare che gli appelli a scendere in armi contro gli occupanti, ad armare la Umma musulmana contro gli eserciti stranieri saranno (già lo sono in molti luoghi) parole d’ordine quotidiane tra i movimenti islamici militanti e non necessariamente tra i più estremisti. Kuftaro, il Gran Mufti di Damasco che incontrò di recente il papa, ha chiamato i musulmani alla jihad contro gli invasori anglo-americani. Non si tratta di un estremista, bensì di un alto dignitario religioso conosciuto e apprezzato per saggezza ed equilibrio di giudizio. Dobbiamo insomma mettere nel novero delle possibilità una ulteriore e rapida radicalizzazione degli animi, situazione in cui non possiamo dire fino a che punto terrà la diga di Giovanni Paolo II. Il quale lucidamente ha saputo tenere ben distinta la crociata di Bush e Blair dai valori e dall’essenza della civiltà cristiana, e - così pare finora - ha saputo efficacemente trasmettere questo messaggio al mondo musulmano.

Gli americani sanno bene di avere ingaggiato una lotta contro il tempo: la generosità e la larghezza del prossimo Piano Marshall per il Medio Oriente, di cui la ricostruzione dell’Irak è solo il primo tassello, condizioneranno largamente gli eventi prossimi futuri. A fronte delle prediche destabilizzanti di fondamentalisti e estremisti islamici d’ogni corrente, starà il flusso, si suppone crescente e sempre meglio mirato, degli aiuti americani, che dovrebbero indurre le masse dell’Irak prima, di altri paesi poi, a distogliersi progressivamente dalle sirene dell’integralismo e a convincersi di quanto più bello, sano e conveniente sia stare dalla parte dello Zio Sam. Il disegno strategico dell’impero di Bush non può, nel medio termine, prescindere da una effettiva conquista anche dei cuori degli arabi, oggi sconfitti e umiliati. Gli americani del resto, dalla fine della II guerra mondiale in poi, non sono nuovi a questo genere di imprese e possiamo scommettere che vi si impegneranno davvero e senza risparmio.

L’Europa "dissidente", quella non ancora allineata al disegno imperiale, ossia Francia Germania e Russia, è posta oggi di fronte a un bivio: rientrare nei ranghi, come qualche segnale lascerebbe già prevedere, o imbarcarsi nella costruzione difficile di una nuova politica mediorientale che, inevitabilmente, è destinata da un lato ad approfondire le lacerazioni in seno alla UE, dall’altro a cozzare con la strategia imperiale di Bush e amici.

L’Europa in realtà ha ancora qualche margine d’azione: molti paesi arabi potrebbero essere tentati di stringere più stretti rapporti con il fronte dell’Europa "dissidente" per sottrarsi al troppo invadente abbraccio del (presto debordante) protettorato americano. Qui forse si situa una possibilità concreta, sia pure a costo di creare crescenti divisioni all’interno dell’Occidente euro-americano, di una politica mediorientale alternativa a quella americana. Il fronte dell’Europa "dissidente", che non a caso ha cercato e ottenuto la solidarietà cinese prima e durante la guerra irakena, con la lungimiranza che deriva da una tradizione di politica estera che solo grandi stati possono avere, sta ora faticosamente tentando di costruire un’alleanza a tutto campo tra le grandi potenze continentali dell’Eurasia: Francia, Germania, Russia, Cina.

Questi paesi sono accomunati da almeno due o tre cose: il poco o nessun interesse ad acuire le tensioni col mondo islamico, visto che esso è già largamente presente a casa loro in forma di consistenti minoranze presenti da secoli e secoli (Russia e Cina) o immigrate di recente; la forte dipendenza da fonti e energetiche esterne, strutturale per Francia e Germania, o prevedibile nel prossimo futuro per Cina e Russia in una prospettiva di ulteriore sviluppo economico di vaste aree interne; la crescente insofferenza per il mondo uni-polare a guida unica americana.

La guerra irakena li ha costretti per ora a una temporanea alleanza de facto, il tempo e l’evolversi degli avvenimenti ci diranno se questa alleanza potrà (e vorrà) dotarsi di un disegno strategico comune e alternativo a quello degli Stati Uniti e dei loro più scodinzolanti vassalli.

La questione delle strategie future dell’Europa ha un’evidente importanza ai fini del nostro discorso. Nella misura in cui il mondo islamico e, soprattutto, il fiuto lento ma infallibile delle sue masse, saprà percepire che l’Occidente e la modernità non si riducono al brutale binomio marines-dollari, si potranno sviluppare anche scenari diversi da quelli poco limpidi che vediamo oggi stagliarsi all’orizzonte. Se il mondo arabo-islamico percepirà, nei prossimi anni, una diversa posizione, ovvero un rifiuto crescente dell’Europa di appiattirsi sulla politica imperiale americana, i governi moderati di quella tormentata regione, stretti tra l’incudine di masse frustrate, impoverite e oggi spesso furibonde, e l’implacabile martello americano, avranno una sponda vitale cui appoggiarsi nel difficilissimo compito che li attende nel futuro vicino.