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QT n. 22, 21 dicembre 2002 Servizi

I diritti umani e il futuro dell’Islam

Dopo le rivolte integraliste contro Miss Mondo, e in attesa della guerra sull’Irak: dalla Nigeria all’India, gli scontri e le evoluzioni all’interno del mondo islamico.

La Nigeria ha certamente fatto parlare molto e a lungo di sé in questi ultimi due o tre anni. Il caso delle donne condannate alla lapidazione per presunto reato di adulterio prima; gli scontri interreligiosi tra cristiani e musulmani negli stati del Nord (ricordiamo che si tratta di una federazione di stati più o meno sul modello americano) poi; infine la recente questione dei disordini scoppiati in seguito alla diatriba sul concorso di Miss Mondo.

Safiya, la donna nigeriana condannata alla lapidazione per adulterio e salvata grazie alla mobilitazione internazionale.

La stampa italiana e internazionale, più informata del solito sul retroterra di questi problemi, ha ampiamente e tutto sommato correttamente informato: dietro la questione religiosa c’è sicuramente una miriade di altre meno nobili questioni. Problemi di lotta etnico-tribale, mire secessioniste del Nord, forse anche regie esterne che mirano alla disgregazione di quella che appare - per numeri demografici e economici, per le risorse petrolifere e le risorse umane - la possibile "potenza africana" del futuro. Problemi politici insomma, anzi politici per eccellenza, visto che come sempre è in gioco la spartizione o l’accaparramento del potere e delle sue risorse.

Io credo che questo debba essere il punto di partenza fondamentale per ogni corretta analisi del fenomeno-Nigeria. Il fatto religioso, in questo contesto, diventa una variabile, certo una variabile fondamentale perché - come in ogni scontro di potere - i fattori identitari giocano un ruolo strategico nel decidere appartenenze e scelte di campo; ma, ecco il punto, il fattore religioso, io credo, non è più importante oggigiorno nella complessa partita che si gioca in Nigeria del fattore tribale o etnico. Vedere il tutto come un ennesimo scontro Islam-Cristianità sarebbe insomma fuorviante, così come vedervi sempre una ennesima malefatta del complotto dei cattivi fondamentalisti islamici. Ne abbiamo avuto sentore allorché i nostri telegiornali qualche giorno fa aprivano le notizie con roboanti "scontri alimentati dagli estremisti islamici", per poi aggiungere poco dopo senza battere ciglio: "Distrutte o date alle fiamme chiese e moschee (!) durante gli scontri".

Ci troviamo in realtà in un paese in cui la convivenza pacifica fra cristiani, musulmani e religioni autoctone è stata piuttosto la regola che non l’eccezione sin da prima dell’occupazione coloniale britannica. Certo, la lunga e pacifica convivenza non fa notizia…

A proposito dei britannici: pochi, forse anche tra gli addetti ai lavori, sanno che l’introduzione su vasta scala in Nigeria e nell’Africa Occidentale della shari’a è uno dei più bei regali dell’amministrazione di Sua Maestà il re d’Inghilterra. Questa, desiderosa di fare ordine e porre limite ai troppo vari e eterogenei diritti consuetudinari locali, decise motu proprio di dare valore di legge all’unico diritto che appariva già sufficientemente codificato e strutturato, ossia al diritto islamico, a quel tempo applicato colà solo in poche tribù. In India era accaduto qualcosa di simile: l’amministratore coloniale aveva imposto un sistema misto, conosciuto dagli specialisti come "diritto anglo-musulmano" , in cui il giudice britannico emetteva sentenze sulla base di una legge religiosa musulmana (shari’a) in qualche modo integrata dalla giurisprudenza inglese e, fatto estremamente significativo in questo contesto, facendosi assistere da un muftì ossia un consulente giuridico musulmano, esperto appunto di shari’a; il tutto, si badi bene, in una colonia a maggioranza indù e che aveva solo una élite musulmana storicamente legata alla dinastia dei sovrani Moghul.

Insomma, all’identità islamica dell’attuale Nigeria del Nord ha dato certamente una mano, più che robusta, il vecchio dominatore coloniale, di fatto privando usi e costumi locali (spesso assai più flessibili e meno rigorosi della shari’a) di qualsiasi forza di legge.

La Nigeria odierna si trova certo di fronte a una sfida immensa: coniugare il proprio statuto di società multi-etnica e multi-confessionale con la modernità e la legittima aspirazione a divenire il paese leader dell’Africa nera. Ci riuscirà? Ce lo dirà il modo in cui essa saprà gestire la crisi di questi anni, crisi per certi aspetti inevitabile e attraverso la quale le sue strutture civili e istituzionali - formalmente quelle di una grande democrazia percorsa però da potenti correnti autoritarie e clientelari, e sempre sotto tutela della casta militare - passeranno un po’ per la prova del fuoco.

Venendo al fatto d’attualità, si ha l’impressione che l’epilogo del concorso per l’elezione di Miss Mondo abbia prodotto due tipi di reazione. Negli ambienti musulmani "moderni" ossia europeizzati nei costumi e (tendenzialmente) nella mentalità e nei modelli di condotta sociale, da sempre desiderosi di scrollarsi di dosso l’immagine, ormai consolidata nei media europei e americani, di un Islam come religione dell’intolleranza, l’ "affare-Nigeria" è vissuto come una catastrofe che si aggiunge peraltro alla serie nutrita delle altre immagini negative dell’Islam odierno: dagli sgozzamenti di civili inermi in Algeria alle atrocità commesse dai Taliban nell’Afghanistan, sino alle imprese di Osama Bin Laden e soci. Da quando nell’intellettualità musulmana l’egemonia culturale è passata, già intorno agli anni ’70, dai modernisti e riformisti filooccidentali, che la tenevano ininterrottamente dalla seconda metà dell’ ‘800, ai radicali e agli estremisti fondamentalisti, si è prodotta una situazione senza (apparente) via d’uscita. Parlare di diritti e cultura dei diritti, significa quasi automaticamente essere classificati dalla parte avversa (ossia dagli estremisti islamici) come filoamericani e filooccidentali, insomma potenziali traditori della causa di Maometto e della stessa comunità islamica. Il problema dell’intellettualità musulmana contemporanea, a ben vedere, è trovare un linguaggio nuovo, non immediatamente avvertibile come allogeno (leggi: occidentale) per parlare dei diritti, della differenza (religiosa, di genere), della democrazia. In una parola, per conciliare Islam e Modernità.

La seconda reazione, quella che interessa il campo oggi culturalmente egemone (attenzione: culturalmente, non politicamente!) è di ovvia soddisfazione: lo spostamento della finale di Miss Mondo è stata vista certamente come una vittoria, come una conferma della bontà della causa. Purtroppo, come è facile prevedere, ciò si tradurrà in una ulteriore stretta in Nigeria sui margini di libertà della stampa e dei media, con un aumento della autocensura dei giornalisti, come se non bastasse già quella politico-governativa.

Ci si può chiedere se oggi gli intellettuali musulmani ingaggerebbero una dura battaglia civile per il caso Safiya o per la questione di Miss Mondo. La risposta è negativa: si avranno qua e là timide voci isolate, forse qualche appello con un po’ di firme, non molto di più. E’ già difficile, talora pericoloso, parlarne e discuterne in un pubblico dibattito sui media: ci sono cause che, forse solo per il fatto che vengono patrocinate dall’Occidente euro-americano (il caso Salman Rushdie docet!) diventano non più sostenibili o persino "indecenti" per la sensibilità media dell’opinione pubblica dei paesi musulmani. Riuscirà sempre difficile per l’uomo della strada di un suk arabo capire e accettare che europei e americani si scaldino tanto per il caso di una sospetta adultera condannata a morte, e poi di fatto condannino a morte migliaia di bambini negando la cessazione dell’embargo all’Irak, argomento che - come è ben noto- viene largamente impiegato dalla propaganda fondamentalista e non solo. Nessun intellettuale musulmano poi oserebbe impiegare la propria intelligenza, la propria reputazione, e rischiare magari anche la vita, per difendere a oltranza la causa del diritto delle signorine di Miss Mondo a esibire le proprie grazie in ogni parte del pianeta.

C’è, se vogliamo, un problema di "decenza" e di priorità: a un intellettuale europeo, comodamente seduto davanti al suo computer e calato in una società del superfluo, può sembrare prioritario difendere tra le altre cose anche il diritto delle signorine di Miss Mondo; a un intellettuale musulmano, operante in ben altra realtà, la cosa sembrerà soltanto "indecente", e sicuramente non prioritaria.

Ma c’è di più. La questione dei diritti, in un contesto di astio crescente e di ripulsa per i valori occidentali, si lega pericolosamente alla questione identitaria: non è facile per l’intellettuale musulmano parlare di diritti senza essere sospettato di voler sotto sotto voltare la schiena ai più sani valori tradizionali o, peggio, di essere un cospiratore e un corruttore della società islamica al soldo degli "imperialisti guerrafondai e nemici dell’Islam".

Prospettive nere dunque per l’intellettualità modernista dei paesi musulmani? Non esattamente. Come ben metteva in luce Bernard Lewis in una recente intervista (L’Avvenire, 21 novembre 2002), anche in paesi sotto dittatura religiosa come l’Iran cova un dibattito ampio e per nulla succube nei confronti dell’egemonia fondamentalista. In altri paesi come l’Algeria o lo stesso Irak, la forma di potere autoritaria di ascendenze "socialiste" e in vario modo garantita dai militari, ha tenuto aperto uno spazio di laicità e di dibattito sulle questioni della differenza. Nel terribile Irak di Saddam Hosseyn le donne godono di una libertà d’azione impensabile nei vicini stati del Golfo; nello stesso Iran fondato dalla rivoluzione teocratica di Khomeyni, i giovani di ambo i sessi discutono liberamente nelle università e, più limitatamente ma ancora con un certo margine di manovra, sui media, e trattano ampiamente tante questioni che semplicemente sono ignorate dai loro coetanei dell’Arabia Saudita, finora solido alleato degli Stati Uniti. Ancora, in tutto l’Islam turco, ossia dalla Turchia alle repubbliche turche dell’Asia centrale ex-sovietica, esiste una vivacissima intellettualità laica e modernizzatrice che non teme di far sentire la propria voce. Le stesse recenti evoluzioni del partito islamico moderato oggi arrivato al potere in Turchia, che anela a divenire una sorta di "DC islamica", simile nell’impostazione ad analoghi partiti religiosi moderati operanti da tempo nel mondo politico indonesiano, ci fanno ben sperare.

Panorama di Baghdad.

Ecco, oggi la nuova sfida dei moderati e modernisti musulmani si gioca sulla capacità di dar vita a partiti di "Democrazia islamica" sul modello della Democrazia Cristiana tedesca o italiana: partiti insomma capaci di portare i rispettivi paesi incontro al mondo moderno dei diritti, della democrazia politica e del rispetto della differenza in un contesto "culturally correct", ossia che non prescinda bensì prenda forza da una identità islamica profondamente ripensata e rinnovata. Se il partito islamico moderato oggi al potere in Turchia vincerà la sua scommessa, se manterrà fede alle promesse, possiamo dire sin d’ora che la partita di fondamentalisti e estremisti islamici d’ogni specie è persa. L’esempio turco diverrà un modello da imitare, e avrà ben altro impatto sul mondo arabo che fronteggia l’Europa rispetto a quello del più lontano modello indonesiano. I modernisti e liberali musulmani d’ogni corrente vi troveranno un approdo sicuro e uno strumento d’azione nuovo e potente: il panorama politico dei paesi del Medio Oriente - oggi costituito da una avvilente sequela di regimi più o meno dittatoriali - potrebbe davvero cambiare nei prossimi vent’anni. E c’è da scommettere che i fondamentalisti e gli estremisti di ogni specie si impegneranno a fondo per mettere i bastoni tra le ruote a questo nuovo soggetto politico.

Su questo possibile e auspicabile scenario virtuoso ci sono naturalmente delle grosse incognite, soprattutto di ordine internazionale. La prospettata guerra di Bush all’Irak è certamente una di queste. Non la sola. Una nuova apocalisse scatenata sull’Irak può avere esiti imprevedibili. E’ chiaro che, questa volta, gli americani non si fermeranno finché non avranno instaurato a Baghdad un regime-fantoccio. La presenza di truppe e basi americane permanenti in Irak, che si aggiungono a quelle già presenti in Kuwait, in Arabia Saudita, nell’ Asia Centrale ex-sovietica (dopo la guerra afghana), non farà che portare acqua al mulino degli estremisti che invocano la "jihad difensiva", ossia di liberazione del suolo islamico dall’occupazione di truppe straniere e non-musulmane. Baghdad ha poi un significato particolare nella storia e nella coscienza del mondo arabo e musulmano: fu il centro del califfato abbaside (VIII-XIII sec.), l’epoca certamente più luminosa e culturalmente feconda della storia dell’Islam. La conquista di Baghdad da parte di eserciti americani avrebbe insomma un impatto emotivo e simbolico paragonabile a quello che, per fare un paragone, avrebbe avuto l’arrivo delle brigate di cavalieri cosacchi a Roma, come strombazzava certa propaganda anti-comunista del nostro secondo dopoguerra. C’è da augurarsi che il team di cervelli e professori esperti di questioni islamiche che assistono Bush abbia ampiamente informato il presidente americano sui rischi di questo scenario. Purtroppo l’impressione è che l’amministrazione americana, pur ben consapevole del problema, abbia già deciso e già messo in conto una dura risposta in termini di recrudescenza del fenomeno terroristico e di un aumento generalizzato dell’odio anti-americanio e anti-occidentale tra le masse e gli intellettuali arabi.

Ma allora, ci si chiederà, a che pro fare la guerra all’Irak? Giustamente Schroeder e Chirac rimangono recalcitranti di fronte alla partecipazione a un conflitto che cancellerebbe per lungo tempo la tradizione di buoni rapporti e di buon vicinato dell’Europa con il mondo arabo musulmano, inaugurata e perseguita con coerenza nel secondo dopoguerra almeno dopo l’infortunio della crisi di Suez. Schroeder e Chirac hanno ben capito, a dispetto di altri colleghi europei scodinzolanti e acclamanti a ogni uscita di Bush, che l’Europa non ha nulla da guadagnare da una nuova guerra con il mondo arabo-islamico.

Evidentemente nella strategia americana a lungo termine, in cui s’inquadra la prospettata guerra all’Irak, c’è dell’altro. Oggi, secondo analisi provenienti da autorevoli centri di studi strategici e geopolitici, il controllo politico-militare di vasti territori musulmani, da quelli del Golfo a quelli posti lungo la linea che va dal Caucaso all’Asia Centrale, si inserisce nel nuovo Grande Gioco che vede come protagonisti non più l’Inghilterra e la Russia zarista (che su questi stessi territori si confrontarono a lungo nell’ 800 e primo ‘900) bensì gli Stati Uniti e l’ex-"gigante addormentato": la Cina. Una Cina che, sviluppandosi da almeno un decennio a ritmi straordinari, secondo alcune proiezioni dovrebbe raggiungere e superare il PNL (prodotto nazionale lordo) americano ossia la ricchezza prodotta annualmente dagli USA tra il 2010 e il 2020, rimettendo bruscamente in gioco l’egemonia a livello planetario. In questa prospettiva, alcune campagne militari dell’ultimo decennio diventano leggibili con chiarezza: dopo ogni guerra (Kuwait, Afghanistan) nuove basi americane sono state stabilite in territori musulmani che permettono a uno degli attori del Grande Gioco di presidiare meglio le fonti energetiche da un lato, di controllare più da vicino il grande avversario oggi in fase di "risveglio" dall’altro. Insomma, secondo questi studi, poco o nulla sarebbe cambiato nella grande politica che si gioca in Asia dall’ ‘800 ad oggi: le nuove potenze giocano sempre il vecchio Grande Gioco degli stati coloniali di un secolo fa.

Pura fantapolitica? Solo esercizio intellettuale di annoiati studiosi dei centri di studi strategici? Staremo a vedere. Di certo, il singolare accanimento americano contro l’Irak, la forte ideologizzazione della "campagna contro il terrorismo", la non chiara posizione cinese di fronte a questa campagna, i dubbi avanzati da qualche osservatore su presunti rapporti fra estremismo islamico e la Cina, pongono altrettanti interrogativi su quali siano i fini ultimi dell’America di Bush. E ci lasciano il sospetto che il mondo islamico oggi sia, suo malgrado, solo una grande scacchiera sulla quale si sta conducendo un Gioco portato avanti da altri, potentissimi, giocatori.

Il colonialismo non è finito, come a ragione sostengono anche gli intellettuali musulmani più moderati, ha solo cambiato pelle. Né l’imperialismo è mai morto: si muove con più discrezione e eleganza, ma ha gli stessi obiettivi di una volta.

Ma anche l’Islam è in fermento, non resta fermo. Nel Grande Gioco (cino-americano o russo-americano che sia) la "variabile islamica", che l’ottimista Bush si propone di tenere sotto controllo con un mix adeguato di bombe e aiuti alla ricostruzione (insomma, ancora la vecchia politica coloniale del bastone e della carota…), potrebbe andare velocemente fuori controllo. Una nuova umiliazione dell’Irak e del mondo arabo-islamico potrebbe determinare una forte rimonta dell’estremismo dopo le battute d’arresto che esso aveva subito negli anni ’90 (dall’Algeria all’Egitto). I regimi musulmani moderati (leggi: militari o comunque retti da mani autoritarie e filo-occidentali), già oggi in fibrillazione, potrebbero entrare in crisi definitiva e dare via libera all’opzione fondamentalista. In questo possibile scenario avverrebbe certamente un ricompattamento del mondo islamico, ma nelle condizioni peggiori che ci si possa immaginare: lo spettro dello "scontro di civiltà" si materializzerebbe davvero, gli intellettuali musulmani modernisti e liberali sarebbero spazzati via, si tornerebbe allo spirito di crociata da una parte e dall’altra, i musulmani che vivono in Europa e in America diverrebbero ipso facto sospetti di agire come "quinta colonna", il razzismo anti-arabo esploderebbe, i margini di libertà si restringerebbero ovunque per le esigenze della "sicurezza", la vita e il mondo della seconda parte del Novecento ci apparirebbero presto una sorta di Belle époque irrimediabilmente perduta… Non ci sarebbe più posto per sviluppare nel Mediterraneo un progetto di "Democrazia Islamica" alla turca, né le varie Safiya della Nigeria farebbero più notizia.

Ci sembra che la coraggiosa posizione assunta dal cancelliere tedesco Schroeder sia oggi una delle poche voci europee che guardano con lucidità e libertà intellettuale ai problemi che abbiamo di fronte. Ma l’Europa ha poche speranze di sottrarsi all’avventurismo americano, di sottrarsi alla nuova crociata voluta da Bush, se non si ricompatta su posizioni nettamente distinte; e forse neppure questo potrebbe bastare se mancherà una posizione comune con la Russia di Putin, oggi diventata forse l’unico attore capace di bloccare l’evolversi dello scenario sopra descritto. Né inganni il fatto che anche Russi e Cinesi hanno le loro gatte da pelare con gli islamici di casa: giustamente essi si rifiutano di fare d’ogni erba un fascio, di legare problemi diversi come la guerra aperta a uno Stato, per quanto "canaglia" lo si ritenga, ai loro problemi di controllo interno di minoranze ribelli.

Oggi, come ieri, il mondo islamico è terreno di confronto per giochi molto grandi, talora inconfessabili, delle grandi potenze. Il fatto è che i musulmani di oggi questo gioco non lo accettano più, e - anche a prescindere dalla manifestazione estrema del terrorismo - cresce ovunque il risentimento e l’odio per i "nuovi crociati". Intanto, l’Europa di oggi, a differenza di ieri, non sembra sapere (o potere?) fare molto di più che stare a guardare.

Per tornare all’argomento iniziale, è evidente che c’è un nesso preciso che lega la questione dello sviluppo dei diritti umani e soprattutto dell’ampiezza del dibattito nel mondo islamico, alla questione della pace e dello scenario internazionale. Se prevarrà uno scenario di guerra e una logica di schieramento, è più che prevedibile un progressivo e accelerato arroccamento ideologico, una valorizzazione-estremizzazione del fattore identitario. Il quale, inevitabilmente, farà perno da una parte e dall’altra (sì, anche in Europa e negli USA) sull’appartenenza religiosa. Ma allora ogni battaglia per i diritti di Safiya o delle signorine di Miss Mondo diverrà semplicemente inimmaginabile per qualsiasi intellettuale musulmano che già oggi, per la verità, fa fatica ad impegnarvisi; ma anche la cultura della differenza e il rispetto del diverso che fanno l’orgoglio della nostra vecchia Europa, c’è da scommetterci, entreranno in crisi. In conclusione, solo la pace potrà fare sviluppare i diritti e una cultura dei diritti nel mondo islamico, potrà far vincere le forze della modernizzazione, non certo la guerra di Bush.