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QT n. 8, 19 aprile 2003 Servizi

I cattolici e la guerra

La pietà per i morti. La preoccupazione per le macerie che hanno sepolto il diritto internazionale. Ma anche la speranza suscitata da un movimento planetario che si oppone all’arroganza dei “liberatori”.

Paolo Moiola

"Una guerra che non doveva aver luogo - ha detto monsignor Michel Sabbah, patriarca di Gerusalemme -.

Perché niente giustifica che un paese invada un altro paese. Se ogni nazione si permette di invaderne un’altra perché più debole o perché si dice che è cattiva, allora è la fine del mondo. Chi può stabilire i criteri di cattivo o buono? ".

"Ferite profonde- ha scritto L’Osservatore romano - segnano il volto dell’umanità del Terzo millennio. Sono i segni indelebili del dolore impresso sui volti innocenti dei bambini colpiti dalla guerra. Sono le cicatrici difficilmente rimarginabili nei cuori dei familiari delle vittime. Sono i fossati di odio scavati tra i popoli. In città sventrate dai bombardamenti, e nelle cui strade si spara senza pietà, uomini, donne, bambini cercano disperatamente la fuga, verso mete ignote e non meno insidiose".

I sostenitori del conflitto iracheno pensavano di poter aver facilmente il sopravvento sul movimento pacifista mondiale. Invece, così non è stato. A spiazzarli ha contribuito in maniera sostanziale il papa in persona che, fin dall’inizio della crisi, non ha mai smesso di gridare contro la follia della guerra.

"Di fronte a questa testimonianza cristiana contro la guerra - ha scritto padre Enzo Bianchi, priore del monastero di Bose -, quanti avevano ritenuto che la Chiesa si fosse ormai rappacificata col potere del libero mercato e omologata all’ideologia occidentale si sentono frustrati e delusi. Ogni giorno intervengono sui mass media o per criticare il papa, o per fornire distinguo e interpretazioni riduttive al suo magistero: il papa non è pacifista, il papa contrasta ma non condanna questa guerra contro l’Iraq, il papa si distanzia dal pacifismo di vasti settori del mondo cattolico. Salvo essere puntualmente smentiti da ulteriori interventi".

La verità, com’è noto, è la prima vittima della guerra. Vengono i brividi a pensare cosa sarebbe accaduto se l’informazione fosse stata limitata ai reportages dei networks televisivi statunitensi, come la Cnn o la Fox News, o agli editoriali del Washington Post o ancora ai resoconti dei giornalisti arruolati insieme alle truppe. I bombardamenti sarebbero diventati operazioni chirurgiche; i morti civili spiacevoli effetti collaterali; la resistenza all’invasione terrorismo; gli Scud iracheni armi di distruzione di massa; gli aiuti umanitari vero scopo della guerra. Invece, per fortuna il monopolio informativo statunitense è stato rotto, soprattutto dalla televisione panaraba al-Jazeera, invisa ad ambo i contendenti e che ha pagato col sangue il suo essere sul campo. Non è stata l’unica.

"In tempo di guerra - ha scritto padre Giulio Albanese, direttore della Misna, l’agenzia di notizie degli istituti missionari italiani -, l’informazione rischia di sortire effetti devastanti sulle coscienze di tanta gente. Il gergo, in certi salotti dell’etere, è quello dei fumetti di guerra, dove muoiono i cattivi e vincono i buoni".

Certo fa male al cuore e all’intelligenza vedere come nei salotti televisivi nostrani si è discusso della guerra, con le mappe dell’Iraq su cui muovere le pedine e gli ospiti (generali in pensione, direttori di giornale, attori, politici) a disquisire sull’avanzata degli alleati. Salotti dove 500 morti iracheni non meritavano che un cenno perché tanto erano soldati del dittatore, mentre alcuni morti dell’altra parte erano subito assurti al rango di eroi.

Era così pericoloso l’esercito di Saddam? Quasi tutte le vittime anglo-americane sono state uccise dal cosiddetto fuoco amico o da incidenti. In settimane di guerra non si è alzato in cielo un solo aereo iracheno, mentre un esercito di poveri diavoli con i sandali o addirittura scalzi ha affrontato un esercito iper-tecnologico. Morti o prigionieri che fossero, nessuno di loro ha avuto l’onore della prima pagina, come la soldatessa Jessica. E poi dove saranno finite le fantomatiche "armi di distruzione di massa" di Saddam? Se c’erano, come mai non sono state utilizzate? La speranza è che vengano trovate quanto prima, altrimenti i vincitori potrebbero andare a cercarle in altri paesi.

E’ stata una guerra di liberazione per scacciare il dittatore Saddam e imporre la democrazia (occidentale) ai popoli dell’Iraq? "Che i responsabili - ha scritto Shlemon Warduni, vescovo ausiliare di Baghdad - di quest’aggressione al popolo iracheno ascoltino il pianto dei bambini, il grido delle madri e dei padri sofferenti e la disperazione delle ragazze e delle donne, che sentano la sofferenza di tutti gli iracheni, che cessino di mandare missili e bombe. Noi responsabili delle chiese cristiane, insieme ai nostri fratelli musulmani in Iraq, ringraziamo tutti quelli che lavorano per fermare l’aggressione contro di noi, e specialmente il santo padre Giovanni Paolo II. Chiediamo di continuare la preghiera e l’opera assidua per influenzare quelli nelle cui mani sta la decisione della cessazione di quest’aggressione ingiusta sul nostro martoriato popolo, causa della morte di bambini, vecchi, donne, malati, mentre i nostri giovani al fronte devono difendere con lealtà la loro patria".

Ora vedremo come gli anglo-statunitensi si comporteranno, come gestiranno la transizione verso la "democrazia". Vedremo quale ruolo assegneranno alle Nazioni Unite, umiliate come mai nella loro storia.

Dicono: avete visto come gli iracheni festeggiavano le nostre truppe che entravano a Bassora, Baghdad e nelle altre città? A parte i legittimi dubbi sull’entità numerica della folla festante, dopo 12 anni di embargo e settimane di bombardamenti martellanti, paura, morte, distruzione, chi mai non festeggerebbe la fine di un siffatto incubo? La foto della statua di Saddam abbattuta ha fatto il giro del mondo. Il timore è che ci si ricordi di quella e si dimentichino le migliaia di morti (quasi tutti iracheni), le immense distruzioni, il concetto perverso di guerra preventiva, la pericolosità dell’unilateralismo statunitense. Forse vale la pena di ricordare quanto successo in Afghanistan: quanto tempo è durata la felicità della gente per la cacciata dei talebani?

Un vincitore trova sempre ragioni per esaltare il proprio successo e attirare schiere di adulatori. Chi salirà sul carro dei vincitori? Vi sono già salite da tempo le compagnie statunitensi che ricostruiranno l’Iraq. "Per dare un’idea di come lavorano gli americani - ha scritto Famiglia cristiana -: Usaid (United States agency for international development, agenzia del Dipartimento di Stato Usa) ha appaltato i lavori di ricostruzione del porto iracheno di Um Qasr molti giorni prima che le truppe americane potessero dire di averlo conquistato".

E gli aiuti per l’emergenza? "Il popolo iracheno ha già sofferto troppo per dover patire - ha scritto padre Albanese - l’ennesima umiliazione di presunti datori che lesinano offerte come se fossero elemosine per tenere a bada la coscienza. Chi è sopravvissuto alle bombe intelligenti non mendica le briciole di noi ricchi epuloni".

Dicono: questa guerra ha eliminato un dittatore che favoriva il terrorismo internazionale. A parte che l’accusa non è mai stata provata, ci sarà veramente meno terrorismo con un protettorato statunitense insediato in un paese islamico al centro del Medio Oriente e a pochi passi dalla polveriera israelo-palestinese?

"Tutte le nazioni ricche - ha spiegato mons. Sabbah -, se vogliono veramente combattere il terrorismo, devono fare un esame di coscienza, chiedendosi che ruolo hanno nel far nascere i terroristi. L’ingiustizia, l’oppressione imposta ai popoli più poveri, l’iniqua distribuzione dei beni, tutto questo fa nascere il terrorismo. E chi ne è responsabile? Certamente il terrorista, ma lo è ancora di più chi è causa della nascita del terrorista".

"Gli Stati Uniti - ha scritto nel 2000 il prof. Chalmers Johnson dell’Università della California - dovrebbero espletare la loro leadership attraverso la diplomazia e l’esempio anziché la forza militare e i soprusi economici. Molti leader americani sembrano convinti che qualora venisse smantellata anche una sola base americana oltreoceano o si permettesse anche a un solo paese di gestire liberamente la propria economia il mondo crollerebbe. Meglio farebbero a ponderare invece quale potenziale di creatività e di crescita verrebbe liberato se solo gli Stati Uniti allentassero il proprio soffocante abbraccio. Dovrebbero inoltre capire che i loro sforzi di preservare l’egemonia imperiale finiscono inevitabilmente col generare molteplici forme di ritorno di fiamma".

L’obiettivo di costruire un mondo conforme agli interessi e agli ideali americani è in elaborazione da tempo. "La guerra - si legge su Rocca, rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi - senza legalità, senza ragione, senza verità e senza onore, si profila come un nuovo delitto fondatore dal quale dovrebbe nascere la nuova identità americana come Impero e il mondo come epitome dell’America".

"Una piccola pietra si staccò dalla montagna e colpì i piedi della statua e l’Impero si frantumò"(Daniele 2,34). Ma anche senza andare a sfogliare il libro del profeta Daniele, la storia insegna che gli imperi sono sempre caduti. Alcuni rovinosamente, altri meno.

Che fare, dunque? "Sarebbe auspicabile - ha scritto padre Albanese - che qualche spirito illuminato invocasse un tribunale per i crimini perpetrati dal feroce regime di Baghdad, ma anche dai presunti liberatori che, violando la convenzione di Ginevra, bombardano presidi civili e gettano dal cielo le micidiali bombe a grappolo. Questa guerra, ammettiamolo, è una vergogna per tutti!".

E noi, gente comune? Ritirare le bandiere della pace dai nostri balconi in attesa della prossima guerra preventiva? Farsi prendere dallo scoramento perché, nonostante l’ampiezza straordinaria del fronte pacifista, hanno vinto Bush e amici?

"Bisogna - ha scritto padre Umberto Guidotti, missionario a Manaus - sporcarsi le mani dietro questa storia che è veramente sporca. Si tratta cioè di lavorare, perché se non si lavora non accade nulla. Passare all’azione, partecipare, frequentare, militare, sostenere sindacati, banche etiche, bilanci di giustizia, obiezione fiscale. Bisogna lavorare alla costruzione dell’uomo nuovo: lavorare al cambiamento del cuore".