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QT n. 5, 11 marzo 2006 Monitor

“Truman Capote. A sangue freddo”

Il film sulla genesi di un (grande) romanzo che racconta e interpreta un fattaccio di cronaca: il soggetto, pur complesso, risulta affascinante; il film, pur buono, rimane un gradino al di sotto.

Truman Capote. A sangue freddo" parte da un bellissimo soggetto. La vicenda è quella della genesi del libro che dà il titolo al film, un seminale romanzo del Novecento americano. Per scriverlo, Truman Capote si è basato su un fatto di cronaca, la strage di una famiglia del Kansas per mano di una coppia di rapinatori, Percy Smith e Dick Hickock. Capote si rende subito conto che quella storia aspetta qualcuno che sappia raccontarla. Ci scrive sopra un libro avvincente come pochi altri – qualcosa che sta tra un giornalismo dalla scrittura purissima, una letteratura mimetica della realtà, uno studio di psicologia criminale, una generale riflessione sul male.

La pellicola di Bennett Miller non vuole raccontare il romanzo (da cui è già stato tratto un buon film nel 1967), ma la scoperta da parte di Truman Capote della notizia di cronaca e il suo successivo coinvolgimento personale, emotivo, nella vicenda umana e giudiziaria dei due assassini. Dopo aver consegnato alle stampe il romanzo, che lo renderà uno degli autori più popolari d’America, Truman Capote – dandy, cinico, amante della mondanità – avrà un blocco dello scrittore che durerà trent’anni.

Il film risulta buono ma non all’altezza della storia che racconta; rimane un gradino sotto la soglia delle grandi domande che pone; non riesce a realizzare fino in fondo l’ambizione di raccontare cinematograficamente un’attività individuale e privata come quella della scrittura. Lo spettatore che non ha letto il libro di Capote non arriva a capire la sensazione di potenza che le pagine trasmettono. Non risulta comprensibile, ad esempio, la scena della standing ovation di un pubblico esaltato durante un reading pubblico a New York. Alla pellicola, pur giustamente centrata su Capote, manca una maggiore attenzione all’evento di cui egli scrive, lasciato in secondo piano.

Nel libro, quello che lascia stupiti è la maestria con cui Capote riesce a trasmettere in modo neutro e distaccato un dato di fatto: si possono commettere delitti con la mente completamente libera da scrupoli di coscienza. Non è solo la scena furiosa e gelida della strage familiare a mostrarci quanto banale e tecnicamente facile sia fare del male. Ci sono una serie di indizi che danno al lettore l’illusione di riuscire a entrare nella testa dei killer. Capote ci descrive i due criminali alla guida di un’auto, lungo le strade rettilinee del Sud. Un animale attraversa la strada, e il guidatore sterza il volante per schiacciarlo. Con il narratore che racconta tutto senza commenti.

Anche per dettagli come questo "A sangue freddo" è un romanzo che spaventa. Nel film si sente inevitabilmente la mancanza di tali notazioni aggiuntive, di tipo psicologico, sui due assassini. La pellicola di Bennett Miller non riesce a trasmettere appieno il tipo di fascinazione che Capote avvertiva nei loro confronti, che rimane quasi tutta sulla carta, nello script. Infatti lo sceneggiatore Dan Futterman aveva colto perfettamente il nocciolo della questione: "Quello che mi ha intrigato così tanto è il fatto che una persona possa avere due motivi diametralmente opposti per dare qualcosa o per trattare una persona in un particolare modo, come Truman con Perry. Chiaramente, aveva bisogno di Perry per realizzare la sua ambizione di scrivere qualcosa che toglie la terra sotto i piedi, che altera la vita. E in un modo molto complicato, ‘alla Truman Capote’, amava Perry. E’ un disastro che aspetta di accadere".

Il tema forte di "Truman Capote. A sangue freddo" è quindi quello del cannibalismo dell’arte e della letteratura nei confronti della cronaca e della vita. Il gioco di Capote, infatti, è tutt’altro che pulito: imbroglia i due condannati a morte e se li fa amici con l’esclusivo intento di cavarne fuori una buona storia. Il personaggio disturba, crea domande nello spettatore, incerto tra disapprovazione e attrazione.

All’epoca, comunque, si avvertivano appena i prodromi di quello che sarebbe arrivato dopo: la nostra confusione tra descrizione e spettacolarizzazione, compassione e speculazione, ricostruzione e cinismo. Il mondano Capote, ad averlo oggi in Italia, ce lo troveremmo di sicuro nel salotto di Vespa a sporgere la testa sopra il plastico della villetta di Cogne. Eppure, anche se sorge qualche grosso dubbio morale sull’operazione di Capote, basta confrontare il problematico processo di creazione di "A sangue freddo" con quanto avviene oggi di fronte agli episodi più efferati di nera per rimpiangere tempi in cui si poteva ancora sperare in un racconto capace di infondere alla cronaca una forza narrativa in grado di entrare sotto la pelle. Senza nessun calo di tensione che lasciasse il tempo di infilarci in mezzo un’interruzione pubblicitaria.

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