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Sono in Asia le radici cristiane dell’Europa

Ed è lì che bisogna guardare, altrimenti non si capisce nulla. A colloquio col giornalista Paolo Rumiz. Da L’altrapagina, mensile di Città di Castello.

Achille Rossi

"Io non so perché si va in un luogo. Forse la meta è solo un pretesto per fare un viaggio qualsiasi e incontrare l’altro". Questo è l’incipit e anche la sintesi del nostro colloquio con Paolo Rumiz, giornalista triestino e collaboratore di Repubblica, che ha pubblicato recentemante il racconto del suo viaggio a Gerusalemme nell’estate del 2005.

Paolo Rumiz

"Se dicessi che sono andato a Gerusalemme con uno scopo specifico direi una bugia. Sono partito perché m’incuriosiva, ma soprattutto perché mi serviva una grande meta; tutti i viaggi infatti devono avere un grande punto d’arrivo. Per un motivo semplice: non siamo noi che facciamo i viaggi, ma sono i viaggi che fanno noi. Hai un bell’appesantirti di letture e di citazioni, il viaggio ti porta dove vuole; sono le persone che incontri a farti deviare verso le mete vere. E in questo girovagare tra il punto di partenza e il punto d’arrivo dev’esserci una meta precisa, un faro, una cometa, la luce di una capanna. Questo è Gerusalemme per me. Le spiegazioni vengono tutte dopo" .

L’italiano medio immagina che in Medioriente ci sia un conflitto di civiltà fra cristiani e islamici. Ma è proprio così?

"Cerchiamo di mettere un po’ di ordine nel linguaggio. Esistono differenze molto marcate tra culture di cui bisogna prendere atto e fare in modo che non si trasformino in conflitti. Quando l’incontro avviene tra persone è facile trovare l’intesa; quando invece avviene tra poteri forti, tra economie, tende a diventare scontro, soprattutto se ci si insinua la politica. Tra Oriente e Occidente, insieme a una certa attrazione, è sempre esistita una forma di incompatibilità; già lo scontro fra greci e persiani metteva in contrasto una cultura democratica e una fondata sulla monarchia di diritto divino. In questo senso il conflitto è sempre esistito, ma non ha niente a che vedere con le religioni, è uno scontro tra poteri".

Gerusalemme, la chiesa del Santo Sepolcro.

Rumiz è convinto che la spaccatura fra Oriente e Occidente, prima di dividere i cristiani dai musulmani, divide i cristiani d’Oriente da quelli d’Occidente: "Non è soltanto un discorso di teologia, ma una differenza profonda di sensibilità.

Noi cattolici siamo rinascimentali, barocchi, abbiamo una concezione teatrale del rito; i cristiani orientali, invece, hanno una visione molto più simbolica, legata alle icone. Il loro è un mondo di penombra, di mistero, di canto. La forza del canto nel mondo ortodosso è straordinaria, molto più coinvolgente che da noi".

Il giornalista triestino confessa di provare una forte nostalgia per il cristianesimo d’Oriente, pur vedendone con chiarezza i limiti: "Gli ortodossi hanno una forte tendenza a frammentarsi per nazioni e ad andare alla deriva verso una prospettiva autocefala in cui ogni chiesa viaggia per conto proprio. La mentalità è rimasta ancora molto maschilista come da noi un secolo fa. Non faccio una esaltazione acritica del cristianesimo d’Oriente, sono convinto però che, prima di parlare di scontro con l’islam, dovremmo evitare lo scontro tra noi e cercare di capirci senza furberie".

A questo punto Rumiz constata una certa mancanza di visione della Chiesa cattolica, che avrebbe una enorme capacità di farsi ascoltare, specialmente nella tormentata area dei Balcani, e si fa una domanda: "Perché la Chiesa cattolica non si pone come intermediaria nelle zone jugoslave dove albanesi e serbi sono in fortissimo conflitto? Sarebbe una forza di interposizione straordinaria perché costituita da cristiani, che verrebbero bene accolti dai monaci ortodossi che vivono ormai asserragliati nei loro monasteri".

Rumiz ci confida un sogno che non riesce a comunicare, perché nessuno lo raccoglie all’interno della Chiesa: "Sogno di dar vita a un cammino come quello di Santiago, che vada dai Balcani fino a Istanbul. Sarebbe meraviglioso far passare dei pellegrini in questi territori dove i cristiani sono veramente a rischio di estinzione. Porterebbero una testimonianza che farebbe senz’altro piacere. Cosa costerebbe alla Chiesa cattolica farsi promotrice di un’idea come questa?".

Cosa sono le guerre di religione secondo l’esperienza che lei ha fatto in questo viaggio?

"Sono l’apparenza di uno scontro che in realtà è tutta un’altra cosa. Noi crediamo che più ci si allontana dall’Italia verso l’Oriente, più la condizione dei cristiani peggiori. Ho avuto l’impressione che sia vero il contrario. La situazione peggiore l’ho trovata nei Balcani, a due passi da casa nostra. Anche in Turchia, paese Nato che sta per entrare in Europa, la condizione dei cristiani è orribile, perché sono sistematicamente emarginati, a differenza della Siria, paese arabo in cui trovi le chiese piene e i cristiani sono classe dirigente. Insomma, i problemi veri li abbiamo dietro la porta di casa, ma non ne parliamo, perché coloro che mettono in difficoltà i cristiani sono alleati dell’Occidente: l’Albania è una colonia americana, la Turchia un grande paese Nato".

Le tombe dei morti di Srebrenica.

Ma Rumiz precisa subito: "Questa aggressività nei confronti delle popolazioni di cultura cristiana non riguarda assolutamente la gente, ma le classi dirigenti. I turchi sono un popolo magnifico, gli albanesi sono molto ospitali, nei posti più terribili della Bosnia ho trovato la gente più bella del mondo. Non bisogna trasferire sulla popolazione i problemi che riguardano la politica. In fondo le guerre di religione le stiamo creando: perché si parla tanto, giustamente, del prete ucciso in Turchia e non si parla mai delle decine di preti cattolici ammazzati ogni anno in America latina da altri cattolici? Lo stesso discorso vale per i musulmani: hanno fatto una confusione enorme per delle vignette indegne, d’accordo, ma non hanno alzato un dito quando a Srebrenica 8.500 musulmani sono stati passati per le armi. Ho l’impressione che tutto questo parlare di Dio e di guerre di religione non sia altro che un modo per distoglierci dai problemi veri della politica".

Lei afferma di aver riscoperto lo spirito cristiano in terra islamica. Potrebbe raccontarci questa esperienza?

"In quei luoghi i cristiani, essendo in una situazione minoritaria, sono completamente privi di tentazioni temporali. Il loro non è un cristianesimo affarista, materiale come il nostro. In Occidente la fede è difficile, perché siamo bombardati da messaggi di un materialismo terribile, che ci impediscono di arrivare a quel silenzio nei confronti del mondo che rappresenta l’unica possibilità di credere.

Là invece ho trovato una fede semplice, pura, umana; ho riscoperto il senso della comunione, del cristianesimo come luogo dei poveri, come resistenza contro i poteri ostili. Ho vissuto momenti straordinari e ho fatto l’esperienza che dietro le religioni c’è qualcosa di più profondo, che è il sacro".

Rumiz s’appassiona a descrivere questo senso del sacro che rimane quasi imprigionato nei luoghi e che viene fatto rivivere da credenti di altre religioni, come avviene per le grotte della Cappadocia, un tempo culla del monachesimo cristiano.

"I turisti passano e non s’accorgono di niente, ma qualche vecchio musulmano, se ha fede, percepisce in quei luoghi il senso del sacro. E’ straordinario scoprire che il modo di pregare dei musulmani, che s’inginocchiano con la fronte fino a terra e che ripetono il nome di Dio, era un tipo di preghiera cristiana che noi abbiamo perduto. E’ commovente arrivare alla moschea di Damasco e scoprire che uno dei minareti porta il nome di Gesù. Ti ritrovi a risalire dall’islam al cristianesimo, che è il suo padre nobile, fino all’ebraismo, che è il grande capolinea dove ha preso corpo l’intuizione di Abramo: il Dio unico di fronte al quale tutti sono stranieri e pellegrini su questa terra". Un’intuizione che Rumiz commenta con questa splendida citazione di un mistico medioevale: "Chi ama la propria patria è solo un tenero dilettante; chi ama anche le patrie degli altri si avvia sulla strada giusta; ma solo è perfetto chi si sente straniero in ogni luogo".

Dopo l’esperienza di questo viaggio cosa si sentirebbe di dire a tutti i personaggi nostrani che si preoccupano delle radici cristiane dell’Europa, della nostra identità dimenticata?

"Che le radici cristiane dell’Europa stanno in Asia ed è lì che bisogna guardare, altrimenti non si capisce niente; che si facciano carico dei nostri cugini che stanno al di là dell’Adriatico e non considerino quelle terre solo come luoghi di delocalizzazione del lavoro, dove trovare manodopera a basso costo, ma come spazi di comunione culturale. Purtroppo l’Europa ha abbandonato i popoli balcanici in mano ai capitali degli emiri arabi".

Perché ha intitolato il suo libro "Gerusalemme perduta?"

"Per dire che non si tratta di una Gerusalemme rubata che gli arabi ci hanno portato via. Siamo noi ad aver perduto il senso del sacro. Quando arrivi a Gerusalemme, i continui richiami religiosi che si sovrappongono formano un rumore di fondo quasi insopportabile; dopo i meravigliosi silenzi della Cappadocia ti viene da pensare: ‘Mio Dio, dove sono capitato!’ Poi, quando arriva la notte e le botteghe si chiudono, il Sepolcro viene sprangato, tu rimani in quel luogo, nel silenzio, sotto le stelle, senti ancora viva la potenza del sacro e ti accorgi che non sei andato lì per niente".