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La scelta della patria

A Rovereto, una bella mostra su un tema controverso: i volontari nella Grande Guerra, e le dinamiche di una scelta dura, discussa, spesso imbarazzante.

Paola Antolini

Belli e coraggiosi appaiono al visitatore (o alla visitatrice) di oggi questi giovani trentini che novant’anni or sono scelsero di vestire la casacca grigio-verde, disertando spesso in tal modo la leva austriaca.

La mostra "La scelta della Patria", inaugurata al Museo della Guerra di Rovereto il 27 giugno, resterà aperta fino al 4 marzo 2007.

Ad osservarli nelle loro figure, attraverso il ricco corredo di fotografie esposte, si resta un poco affascinati: gli sguardi fermi, fiduciosi, volti all’avvenire, pieni di giovanile entusiasmo e di speranze da compiersi.

Del resto, mi si dirà, così sono i giovani in ogni epoca. Anche il volontarismo trentino nella prima guerra mondiale dunque costituirebbe un fenomeno generazionale? La risposta pare affermativa, seppur sono da menzionare notevoli eccezioni: si pensi ai più maturi Cesare Battisti, Guido Larcher ed all’attempato, ma volenteroso, Alberto de Eccher dall’Eco i quali, per coerenza con gli ideali di una vita, non fuggirono la trincea.

I numeri fornitici dai curatori della mostra però parlano chiaro: l’età media di chi si arruolò si aggira intorno ai venticinque anni; il 31% dei volontari erano studenti, medi o universitari; non pochi gli adolescenti. Questi dati vengono a confermare l’idea secondo cui quella scelta trovò la sua sostanza, il suo alimento in motivazioni generazionali: non a caso vi ricorre la definizione di un irredentismo esistenziale.

Sin dai primi pannelli espositivi l’irredentismo assume infatti non tanto o non esclusivamente i connotati dell’ideale politico antiaustriaco di matrice risorgimentale: sembra piuttosto rappresentare un contenitore di istanze, speranze di rinnovamento sociale e culturale variegate; è in altri termini la risposta, l’agente catalizzatore che convoglia e soddisfa (almeno temporaneamente) il multiforme bisogno di senso delle nuove generazioni. Fare l’irredentista per Remo Costa e Luciano Baldessari, ad esempio, significa contestare l’autoritarismo del vecchio Impero decadente; sognare l’Italia, nazione giovane e proiettata verso il futuro, vuol dire tendere verso una "mitica" realtà di libertà e progresso. E’ chiaro che la scelta, anche a livello simbolico, è segnata. Tant’è che una volta giunti in Italia, chi per studio, chi per lavoro, chi per sfuggire la leva austriaca, ci si sente arrivati, realizzati: studiare nel Regno rappresenta una sorta di approdo naturale, di arricchimento personale, di traguardo agognato e un po’ magico; la patria diviene meta reale collettiva di un viaggio mentale iniziato diversi anni prima nelle coscienze dei singoli individui; il "lungo viaggio" verso l’identità italiana.

La coppia oppositiva giovani/vecchi opportunamente utilizzata per interpretare il fenomeno dei volontari inoltre interagisce in maniera "positiva" con altri fattori fondamentali nei percorsi di formazione dei volontari.

Si sperimenta in specie una sorprendente solidarietà familiare: la maggioranza dei giovani volontari ha appreso l’educazione nazionale fra le mura domestiche, prima ancora che a scuola o nelle associazioni culturali e sportive irredentiste. Il microcosmo familiare è un cardine nella scelta della patria: alle madri, ai padri, alle sorelle, alle zie ed alle fidanzate che tremano, implorano il proprio caro "di non esporsi troppo" durante i combattimenti, il volontario ricorda che furono essi i primi a trasmettergli i santi ideali per cui ora si batte. Uno dei fratelli Tonini invita in proposito la mamma a non piangere e ad andare fiera deipropri figli che combattendo si rendono degni dei loro padri (reali e/o ideali).

La frattura generazionale dunque non investe la famiglia, anzi, secondo la migliore tradizione risorgimentale, ne fa un sicuro approdo cui il giovane soldato si volge per avere incitamento, conforto morale, oltre che (ma assai di rado, per ovvie ragioni contingenti) aiuto materiale.

La mostra dà particolare rilievo a questa componente importante dell’esperienza dei volontari mettendo in evidenza la sezione dei Fratelli in divisa; i Bonfioli sono esemplari in questo senso: quattro fratelli che fra il 1915 e il 1918 si diedero tutti volontari nel regio esercito. Li seguono –nella sequenza di pannelli– gli Scotoni, i Tonini e i ben più noti fratelli Filzi.

Tuttavia i curatori ci invitano ad usare uno sguardo critico ed a ricordare pure che vi furono molte famiglie divise, lacerate dall’evento Grande Guerra; ci raccontano di fratelli che si ritrovarono - vuoi per libera scelta, vuoi per costrizione - su fronti contrapposti. Si resta piuttosto colpiti nel sentire un volontario che piange la morte del compagno italiano, chiamato con commozione "fratello", ma al contempo ignora volutamente la sorte del fratello di sangue, combattente in Galizia.

Non vi è immagine a mio avviso più pregnante e diretta di questa per evocare la discutibile, non trascurabile tesi - proposta da Diego Leoni nella prefazione a "Il popolo scomparso" (Nicolodi, Rovereto, 2004) - di una "guerra civile" trentina apertasi col primo conflitto mondiale, persistente ad un livello endemico nella storia del Novecento.

Le donne sembrerebbero defilarsi in questo universo di combattenti, maschile per definizione; ma il recupero delle lettere indirizzate alle proprie care o, più spesso, alle madrine della Famiglia del volontario trentino (gruppo di fuoruscite associatesi nel 1915 a Firenze allo scopo di sostenere con aiuti concreti lo sforzo dei Legionari) ci mostrano al contrario la vitalità, la centralità simbolica e pratica della figura femminile nelle rappresentazioni che di esse danno i volontari al fronte: silenziose depositarie e custodi della tradizione italiana, materne consolatrici, baluardo contro la stanchezza e lo sconforto, esse devono e sanno ricordare, o meglio, indicare al volontario frastornato da un’esperienza bellica cruda e disumanizzante l’obiettivo ultimo, la meta sospirata. Coi loro piccoli messaggi di incoraggiamento, con l’omaggio dei tricolori tanto graditi (chi li riceve di regola risponde commosso alle benefattrici) sembrano rappresentare una sorta di rifornimento ideale, una "ricarica" morale, una guida; assumono insomma un ruolo tutt’altro che secondario nella metabolizzazione del rapporto fra il soldato e la guerra.

Qui mi fermo per riportare infine l’impressione pienamente positiva della visita fatta: la mostra è costruita bene, è esauriente ed è in grado di parlare ad un pubblico vasto, che vi accede con diversi livelli di informazione e se ne va - auspicabilmente - con diversi gradi di percezione/apprendimento. Il tentativo dichiarato sin dal principio dagli ideatori e dal curatore, quello di dare un’immagine demitizzata, a-celebrativa dell’esperienza dei volontari, di restituirli in sostanza a "nuova vita", è efficacemente messo in atto attraverso il recupero delle fonti: le voci dei volontari emergono vivaci grazie ai brevi stralci delle corrispondenze riprodotte a fianco dei commenti atti a contestualizzarle. Sono inserti ricchi di suggestioni che vengono fatti parlare, senza giudizi e pregiudizi. Non che si lasci il visitatore privo di una qualche chiave di lettura, ci mancherebbe, (sappiamo che l’obiettività assoluta non è di questo mondo), ma il modo in cui ci si avvicina ad un tema così controverso (oggetto per decenni di una mitizzazione portata all’estremo, caduto poi in rovina sotto le ceneri della patria negletta e matrigna) è rispettoso delle distanze temporali e ideali che intercorrono fra il nostro presente ed il loro passato; vi è naturalmente la consapevolezza di questo distacco e la volontà, la voglia di capire anche qualora non si approvi ciò che i volontari pensarono, scrissero, fecero.

Dovremo quindi fare i conti con espressioni molto dure, crude, direi proprio imbarazzanti; odio radicale rivolto all’inviso grugno austriaco, brama della guerra, desiderio dello scontro, sete di vendetta e di giustizia (Fausto Filzi ad Emma, fidanzata del fratello). Chiamiamolo fanatismo, chiamiamola pure barbarie: anche questo fu il prodotto di un’epoca. Potremo recuperare momenti della vitaquotidiana di questi giovani al fronte, animati da grandi speranze, da una fede un po’ cieca e cocciuta che sembra prevalere su ogni dolore, su ogni disillusione. Col tempo sarà interessante approfondire, nei limiti del possibile, quali percorsi specifici di formazione abbiano intrapreso le singole soggettività; quali siano stati i loro miti mobilitanti (penso al Risorgimento trentino, alle figure dei Padri della Patria locali e nazionali) quali figure, quali letture abbiano fatto "scoccare la scintilla" e li abbiano spinti a rischiare tutto, a scegliere la patria sopra ogni cosa, anzi a scegliere quella patria lì.

Il tema risorgimentale della scelta volontaristica, di lunga tradizione, andrebbe forse maggiormente sottolineato: proprio per rimarcare una volta di più la sostanziale antipatia, l’imbarazzo del ceto dirigente italiano verso uomini che dominano il loro destino, che decidono di scegliere, anziché di lasciarsi agire, di farsi scegliere.

Le decisioni di una coscienza si consumano spesso senza clamori ma costituiscono attimi drammatici per l’individuo: dunque mi ha molto colpito la citazione del diario di Enrica Sant’Ambrogio Piscel ove si coglie il praticante-avvocato Fabio Filzi pallido e turbato alla notizia dell’ultimatum austriaco alla Serbia.

Per tutte queste ragioni il concetto della scelta è e rimane a mio giudizio davvero centrale.