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QT n. 4, 24 febbraio 2007 Servizi

Vicenza e la sua base

Pensieri, voci e immagini di una manifestazione.

In un’osteria, a Malo, bevo un caffè prima di andare a Vicenza a manifestare. Entra un tale, che sul posto incontra degli amici. Ci tiene a pagar loro da bere, ordina cinque prosecchi (“prosecchini”). Ne vuole offrire uno anche a un uomo un po’ anziano, che però si tira indietro, chiede un cappuccino. Quell’altro non ci sente, il cappuccino proprio non glielo vuole ordinare. Gli sembra poco decoroso. Eppure è abbastanza visibile: il vecchio sta tentando di tenersi lontano dall’alcool ed è evidentemente imbarazzato dall’offerta del conoscente.

Foto di Alessandra Zendron e Alberto Brodesco

Mi è parso un episodio indicativo di un atteggiamento che a Vicenza si incontra spesso. Tradisce in qualche modo un’indole: che sarebbe anche generosa, ma sin troppo insensibile. Disinvolta sino a diventare volgare, egoistoide.

La provincia di Vicenza, colta alla sprovvista da un’immigrazione quantitativamente rilevante, continua a essere un territorio che ospita perbenisti, ragazzi alla moda, lavoratori duri, imprenditori con le idee chiare su quel che conta nella vita, su dove e quando debbano finire le chiacchiere e iniziare le cose serie, concrete. Ma allo stesso tempo è una provincia dove le alternative e le vie di fuga, anche le più eleganti, sembrano a disposizione.

Il giorno prima della manifestazione, assisto, a Malo, a un incontro per l’ottantacinquesimo compleanno di Luigi Meneghello, uno dei grandi scrittori italiani del Novecento, oltre che, incidentalmente, genius loci. In una sala affollata, lo si ascolta parlare di sé, leggere Ariosto…

Il milieu politico è quello noto a tutti: post-democristiano, forse anche ormai post-leghista, ma comunque conservatore. In questo spazio culturale e politico cala la questione della nuova base americana, la Dal Molin. Da costruire a sei chilometri da quella vecchia, la Ederle. Non è esattamente un “allargamento”. Nasce così la protesta.

Per come si presenta il giorno della sfilata, il movimento contro la base sembra forte, sentito. La sua forza sta nel fatto che il no alla Dal Molin somma motivazioni diversissime.

Alcune, di carattere locale, mettono insieme le critiche di chi abita un territorio destinato a veder sorgere una base militare, con tutte le sue caratteristiche terribilmente intrusive: questioni ambientali, aerei in volo, traffico, falde acquifere, prossimità con il centro storico…

Le motivazioni che in verità sembrano tenere di meno sono quelle urbanistico-ambientali: le vecchie campagne, nel vicentino, sono ormai tutte colonizzate da svincoli, centri commerciali, tangenziali, zone industriali. Impedire la costruzione di una base militare non rimedia al danno. Certo, una base peggiora notevolmente le cose, ma in un contesto in cui quello che c’era da perdere in termini di tutela del territorio è stato più o meno già perso. La questione della base pare così persino costringere ad alzare un velo, a riflettere sull’esistente, a spingere a un auspicabile ripensamento complessivo e radicale.

All’interno di una valutazione di tipo localistico, paradossalmente, risulta essere molto più politico ed ideologizzato il “sì” alla base rispetto al “no”: in mancanza di vantaggi concreti derivanti dal raddoppio della Ederle, si aggrega intorno al sì il pregiudizio anti-sinistra (vivo, antropologicamente vivissimo nel vicentino) e l’algida e distinta mancanza di sopportazione nei confronti di chi si oppone e fa casino.

Gli altri tipi di valutazione a favore della Dal Molin sembrano francamente deboli. A partire da quello economico, secondo il quale gli americani porterebbero ricchezza. Come se nel vicentino ci fosse bisogno degli americani. Come se non fossero già stati presentati progetti di riconversione alternativi, altrettanto se non ancor più redditizi.

Le altre motivazioni al no hanno naturalmente a che fare con la politica internazionale. Non con “l’America”, ma con la politica estera americana; con gli attacchi unilaterali lanciati di recente dagli Stati Uniti in Iraq o in Somalia; con la guerra. Vicenza è uno dei nidi da cui partono gli attacchi. Come si è visto, per molta gente risulta intollerabile stare a casa propria, con il naso all’insù, a scrutare aerei o elicotteri che decollano verso quel tipo di missione.

Sono queste le motivazioni che rendono la protesta di Vicenza diversa da resistenze di tipo Nimby (Non nel mio giardino). Diversa dagli anti-TAV in Val di Susa, dai No-Mose veneziani, dal movimento contro il ponte sullo stretto. L’obiezione, non essendo (solo) ambientale ma anche politica, rende la protesta più generalizzabile, più attraente nei confronti dell’esterno, di chi appoggia la lotta pur non essendo preoccupato per il proprio orto, lontano dal volo degli aerei.

Perché in effetti – a sessant’anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, a quasi venti dalla caduta del comunismo – si può arrivare a pensare che la politica estera italiana debba avere un respiro diverso, e guadagnare, passo passetto, una certa indipendenza rispetto alle servitù militari. Una soluzione compromissoria, senza strappi, sembrava essere alla portata del governo Prodi.

Le uscite della stazione a Vicenza sono presidiate da militanti dal cuore antico che distribuiscono giornali e ciclostilati con parole d’ordine di centocinquant’anni fa, slegate nella forma e nel contenuto dalla realtà del mondo in cui viviamo. Ma in pochi minuti raggiungiamo la testa del corteo, e lì troviamo persone vere. Donne. Le si vede qui a fiancoin fotografia. Mamme, pensionate, signore. Non hanno il fisico delle guerrigliere, ma le si vede: sono ferme, determinate. “Resisteremo un minuto più di voi”, è il loro slogan.

Chiedo a un amico che conosce la vita del presidio permanente se il “No Dal Molin” ha la possibilità di trasformarsi in qualcosa di simile al “No Tav” in Val di Susa. In qualcosa di intransigente, con alle spalle una partecipazione di massa quasi unanime. Mi risponde che al momento le forze non sono paragonabili. La mobilitazione però è in crescita, e il pur casalingo fuoco della protesta sembra essere in grado di auto-alimentarsi. Fra le signore in prima fila si legge, manifesto, un atteggiamento ottimista, frutto di quella fiducia che deriva dal sentirsi dalla parte della ragione.

Il corteo parte in anticipo. Si snoda per sei chilometri, intasati dall’inizio alla fine, con arrivo al Campo Marzio, dove è montato il palco. La polizia sta ai margini, nascosta nelle vie laterali rispetto al percorso del corteo. Anzi, nelle vie laterali delle vie laterali, invisibile. La strategia è perfetta, ammirevole: nessuna occasione di incontro, nessun faccia a faccia, nessun pretesto offerto a nessuno. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Un altro amico, pacioso habitué delle manifestazioni, si sente persino sottovalutato. Trascurato.

Gli slogan più riusciti giocano sulle rime tra “Dal Molin” e “vin”; sulle basi come plurale di “base” opposte al plurale dialettale di “baso” (bacio). Imperversano i gatti, dei quali i vicentini hanno notoriamente la fama di essere mangiatori. Sono semplici, in fondo, i miti di fondazione della civiltà vicentina. L’auto-ironia va a colpire, in modo salutare, un’identità out of joint, persa tra memorie contadine, abiti da messa, cultura industriale e i tanti colori delle migrazioni.

Non sono i discorsi di Dario Fo, Franca Rame e Sabina Guzzanti a rendere memorabile la giornata. A parlare dal palco sono prevalentemente le voci apartitiche dei comitati per il no. Persone semplici, quasi tutte donne che trovano la parole e i toni giusti per arringare la folla.

Si ascolta un rap, che mixa una dichiarazione di voto al Consiglio comunale di Vicenza del consigliere di Rifondazione (nonché storico all’Università di Verona) Emilio Franzina. Fra i momenti migliori, le frasi con cui si rivolge ai leghisti: “Paróni a casa nostra, leghisti? Paróni dove?!?”. L’acceso discorso è già divenuto giustamente un cult.

Alla fine della giornata, non si capisce bene in quanta parte tutto quello a cui si è assistito sia dovuto all’arrabbiatura di chi pensa alla vista dal retro del proprio giardino. L’impressione è che tutto si sia allargato, aperto come la corolla di un fiore. Si può addirittura pensare che i risultati anti-base contino meno del crescere di nuovi ragionamenti, di un pensiero che si allena a essere critico.

Ma del resto non si sa mai. In un film di Jack Arnold del 1959, “Il ruggito del topo”, Peter Sellers guida il farsesco esercito di un piccolo granducato in un attacco volutamente masochistico contro gli Stati Uniti. Sellers, in modo del tutto casuale, finisce tuttavia per vincere la guerra. Il topo, in qualche circostanza, può mangiare il gatto. Non dovrebbe essere difficile, per un vicentino, identificarsi in questo caso con il roditore.