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QT n. 6, 24 marzo 2007 Monitor

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Limitatezza del palco, scenografia all'osso, danze improbabili; eppure l'Otello di Dieter Kaegi finisce con il convincere.

Dopo "La guerra dei Roses", "Vuoti a rendere" e "Danza di morte", al Sociale di Trento la "quadrilogia del matrimonio" è terminata con uno strangolamento, scena clou dell’"Otello" di Verdi (libretto di Boito, da Shakespeare).

La sera della prima, il 10 marzo (replica il giorno seguente), per l’ultimo appuntamento della stagione con la grande lirica il teatro è gremito. Con le prime note ci troviamo a Cipro, alla fine del ‘400, in posizione frontale rispetto a coloro che, "da terra", assistono a una tempesta. Con un po’ di coraggio, il regista Dieter Kaegi avrebbe forse potuto coinvolgere maggiormente il pubblico, correggendo con qualche accorgimento questo cortocircuito prospettico. Oltre a ciò, la riduzione di spazio causata da un soppalco su cui si assiepano gli artisti suscita un effetto iniziale poco gradevole. La tempesta termina, Otello è salvo, Jago e Roderigo sono più neri di lui per la rabbia, in scena la scenografia si trasforma in bettola per i festeggiamenti, con un movimento di panchetti talora molesto durante l’esecuzione musicale.

Nella lirica, è comprensibile, la scenografia è una delle prime risorse a dover sottostare a limiti di spesa. Ma la coreografia non ha di questi problemi: se si rappresenta in scena una danza del XV secolo, conviene evitare ingenui errori nelle movenze, che a un occhio esperto appaiono anacronistici; inoltre, per poter seguire il direttore, i coristi danzanti sono costretti a tenere una posizione statica, a detrimento del ritmo e della naturalità delle danze. Per fortuna le voci sono all’altezza.

Nikola Mijailovic’: un Jago malvagio come da copione, e dalla voce convincente..

L’opera deve la sua fama al compositore e, in secondo luogo, al librettista. Ma a Boito qualche tiratina d’orecchi la faremmo volentieri, per i numerosi, insopportabili passaggi testuali scritti in un italiano orribile: "Già il mio cor fremebondo/ S’ammansa in quest’amplesso e si rinsensa" (Otello, I, 3); eccetera.

Subito s’impone la voce di Nikola Mijailovic’ (Jago), che esprime la malvagità del genere umano, presto eguagliato dal fluido fraseggio di Mario Malagnini (Otello), severamente impegnato dalla partitura a dar voce al delirio della gelosia. Il coro del Teatro Sociale di Rovigo, diretto dal M° Giorgio Mazzucato, nonostante gli angusti spazi di manovra, riesce comunque a interagire efficacemente coi solisti. Nota stonata - meno evidente in una messa in scena contemporaneista, alla Peter Sellars, ma notevole in questa - il richiamo di Otello "Abbasso le spade!", enfatizzato dalla partitura, a un Cassio armato di un collo di bottiglia. Entrata in campo Susanna Branchini (eccellente Mimì nella recente Bohème), abbiamo perdonato anche quest’altra ingenuità registica, così come il finale hollywoodiano, con il bacio in controluce tra i due coniugi.

Nel secondo atto, brilla la blasfema cattiveria di Jago-Mijailovic’: con gesto da culturista strappa in scena nientemeno che una Bibbia (se abbiam capito bene).

Una scarna scenografia (tre sedie con braccioli, un tendone sul fondo) costringe i solisti a un gioco dei tre cantoni, con cui animare l’azione. In questi casi si rimpiangono le scenografie profonde, come d’altronde previsto dal libretto: "Una sala terrena nel castello. Una invetriata la divide da una grande giardino. Un verone". Potremmo pensare che il triangolo di sedie alluda al triangolo amoroso disegnato da Jago e che l’asciuttezza della scenografia alluda alla desertificazione mentale prodotta dalla gelosia, ma... vorremmo conferme.

Il coro ben esegue "Dove sguardi splendono", quindi Desdemona viene madonnizzata: le donne del Coro le pongono un manto azzurro sulle spalle e un velo in capo, forse in base ad un’erronea interpretazione dei versi "T’offriamo il giglio, Soave stel/ Che in man degli angeli/ Fu assunto in ciel,/ Che abbella il fulgido/ Manto e la gonna/ Della Madonna/ E il santo vel" (nel libretto non v’è traccia di questo particolare omaggio). Ragguardevole l’esecuzione del quartetto, con la Branchini emergente su tutti, poi i due uomini pervengono al poderoso doppio giuramento di vendetta finale.

Il terzo atto si apre su una sala da pranzo: qui temiamo il peggio per i musicisti, perché prima alcuni acini d’uva, poi addirittura una sedia, volano a terra, pericolosamente vicino alla buca dell’orchestra. Preciso e potente, il coro chiude l’atto con un affollato finale.

Nel quarto atto il pubblico, provato dalla durata dell’opera, ascolta Desdemona cantare nella sua stanza da letto la stucchevole Storia del Salice, seguita poi da un’Ave Maria. Il tragico crescendo conclusivo è noto: il Moro strangola l’innocente moglie ed Emilia denuncia l’inganno di Jago, il quale fugge, mentre Otello, suicida, implora invano l’ultimo bacio dalla defunta.

Con calorosi applausi il pubblico richiama varie volte in scena i cantanti, insieme all’ottimo Giampaolo Bisanti, che alla direzione dell’Orchestra "Malipiero" ha sostituito Gianluca Martinenghi, assente per motivi di salute. Adeguati e bene in parte anche gli altri interpreti.

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