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E Campanella “si fermò” a Trento

La “Città del Sole”, Giordano Bruno ed alcuni anarchici.

Mirko Saltori

I "Nuovi stornelli socialisti", incisi su 78 giri nel 1908 dal baritono Giuseppe Milano, evidenziavano nel disinvolto accostamento dei due filosofi domenicani all’ottocentesco "eroe dei due mondi" il minimo comun denominatore che, nell’ottica dei libertari dell’epoca, andava a definire quei personaggi: l’anticlericalismo. Si trattava di un vero e proprio "uso pubblico" di tali figure, assai diffuso negli ambienti anarchici, socialisti e repubblicani, non esente, almeno per quanto riguarda Bruno e Campanella, da semplificazioni e travisamenti.

C’è, a tal proposito, un bel volume uscito nel 2001, "Galilei e Bruno nell’immaginario dei movimenti popolari fra Otto e Novecento": Bruno, Galilei e Campanella divenivano la "malta di una nuova coscienza laica nazionale, risorsa infinta del ‘fuoco’ delle polemiche anticattoliche dell’anticlericalismo più radicale e ‘sovversivo’".

Monumento a Giordano Bruno - Campo dei Fiori, Roma.

E’ naturale che nel Trentino l’utilizzo di tali figure risulti un po’ più attenuato, e, soprattutto, ritardato. Ma un Circolo Giordano Bruno legato al Partito socialista nacque, nell’agosto 1909, a Mezzolombardo, guidato dal falegname Cesare Berti, che seguì poi le sorti del suo maestro ed amico Mussolini (assumerà negli anni del fascismo cariche sindacali a livello nazionale), e dal fornaio Umberto Furlanelli (che invece, divenuto comunista, sconterà nel 1926-28 due anni di carcere). Il circolo, forte – sembra – di ben 60 soci, ebbe però vita breve, in sostanza fino all’arresto di Berti, in novembre, in relazione all’ "affare Colpi".

Mussolini aveva tenuto durante il suo soggiorno trentino, in quell’anno, diverse conferenze sul Bruno, di cui una proprio nel centro rotaliano; nel febbraio dell’anno successivo, 310° anniversario del rogo, relatore ufficiale fu invece il sindacalista rivoluzionario Giulio Barni.

Anche nell’immediato dopoguerra ebbe fortuna il richiamo ai grandi "eroi" del libero pensiero: nacquero a Trento un Circolo Galileo Galilei, guidato dal Casari e legato ai neonati fasci di combattimento, e soprattutto il Circolo Giordano Bruno dell’anarchico Mario Belluta, problematicamente collegato al Partito socialista: entrambi i circoli appoggiarono il famoso comizio per la laicità della scuola del 27 agosto 1919.

In quei mesi Belluta partecipò alla grande manifestazione socialista nel paese di Meano, sulla collina di Trento, la cui piazza venne intitolata proprio a Giordano Bruno (nel 1921 fu per breve tempo dedicata ad Errico Malatesta...), e sostenne anche, dalle colonne de "L’Internazionale", un contraddittorio col settimanale cattolico "Il Popolo Trentino", cercando nell’articolo "Bruno e i preti", con certo autodidattico enciclopedismo, di andare oltre il mito del Bruno martire: "Procede da lui la filosofia di Spinozza, di Hobbes, di Malebranche, di Cartesio, di Shelling, di Fichte, di Hegel; è di Bruno l’intuizione della legge di evoluzione due secoli prima di Lessing, Condorcet ed Heider; prima di Darvin aveva intuito la trasformazione degli esseri e delle forme; prima di Laplace, di Lyell e di Kant aveva divinato che il centro della terra è igneo. Lamarck nel 1800 ha illustrato il concetto di Bruno: evoluzione delle anime; Helmotz ha dimostrato che le formule del pensiero sono formule matematiche 280 anni dopo che Bruno aveva sostenuto l’identità del pensiero e della natura. Bruno è stato teorico dell’utilitarismo prima di Betham, dello studio delle religioni e dei miti prima di Volney, dell’evoluzione della storia prima di Vico".

Oggi l’opera di Giordano Bruno (1548-1600) è ormai ben apprezzabile, grazie alla mole di studi svolti da Giovanni Aquilecchia soprattutto, da Nuccio Ordine, da Nicola Badaloni. L’edizione delle opere complete è iniziata nel 1993, stampata a Parigi (!!) per Les Belles Lettres: almeno gli scritti italiani sono disponibili da qualche anno in due volumi UTET.

Riguardo alla biografia del pensatore, notiamo solo che un rapporto con il nostro territorio, ahinoi, sussiste: il primo firmatario della condanna a morte di Giordano Bruno fu infatti il Principe vescovo di Trento Ludovico Madruzzo, spentosi meno di due mesi dopo: egli era, dal 1573, membro della Congregazione del Sant’Uffizio, e soggiornava per la massima parte del tempo in Roma. Proprio nel suo palazzo, l’8 febbraio, venne letta la sentenza contro Bruno, "domenichino da Nola, heretico ostinatissimo, che mercordì in casa del cardinal Madrucci sententiarono come auttore di diverse enormi opinioni, nelle quali restò ostinatissimo, et ci sta tuttora, non ostante che ogni giorno vadano teologhi da lui".

Invano si cercherebbe nella grande parte della pubblicistica storica trentina tale notizia: dalle varie storie locali sino ai medaglioni vescovili, non esenti da tratti apologetici, di mons. Costa, non se ne trova traccia. Ma essa era nota da tempo, e assai diffusa grazie agli studi di Luigi Firpo (di cui si può ora vedere l’edizione de "Il processo di Giordano Bruno" curata da Diego Quaglioni – che però, nell’indice dei nomi, trasforma Ludovico Madruzzo nello zio Cristoforo). Ma oggi a tali fatti accennano la voce sul Madruzzo di Rotraud Becker pubblicata nel "Dizionario biografico degli italiani" così come il saggio di Cecilia Nubola nella "Storia del Trentino" edita dal Mulino, e un certo rilievo essi hanno avuto sul quotidiano l’Adige (19 febbraio 2008), che riporta un’intervista allo studioso locale Don Vareschi, per cui "gli esiti furono orrendi e inaccettabili, ma gli inquisitori furono molto scrupolosi e cercarono in ogni modo di convincere Bruno a rivedere le sue posizioni fino alla fine": bontà loro!

La figura di Tommaso Campanella (1568-1639) fu invece in Trentino, a quanto ci consta, assai meno utilizzata da socialisti e libertari. Ma egli era pur sempre l’autore de "La città del Sole", testo a suo modo "comunistico", che ebbe in Europa, anche nei secoli successivi, grandissima diffusione ed influenza, assieme ai "Ragguagli di Parnaso" del marchigiano (ma rifugiato in Venezia) Traiano Boccalini. Ricordiamo fra parentesi che anche un trentino d’adozione, il tipografo Amos Giupponi, socialista, pubblicò nel 1908 una corposa utopia, "Orkinzia o Terra del ‘Radium’", di cui Quinto Antonelli ha curato nel 2000 un’opportuna ristampa: non possiamo pensare che egli non abbia conosciuto il testo campanelliano!

L'unico ritratto autentico di Tommaso Campanella.

La "Civitas Solis" venne pubblicata, in lingua latina, nel 1623 a Francoforte e quindi, nella redazione definitiva, nel 1637 a Parigi. Ma il testo era nato in lingua italiana, verso il 1602: per chi volesse approfondirne la ingarbugliata storia, non si può che rimandare all’edizione curata per Laterza nel 1997 da Germana Ernst e Laura Salvetti Firpo sulla scorta di Luigi Firpo.

E proprio in questa edizione grande spazio è dedicato ad uno dei più importanti manoscritti (non autografi, naturalmente) del testo, conservato, ciò che è ancora poco noto, presso la Biblioteca Comunale di Trento. La presenza del codice, legato assieme ad una "Cronica di Venezia...", era sì segnalata nell’inventario dei manoscritti della Comunale pubblicato nel 1942, ma come semplice copia seicentesca, senza che ne fosse valutata l’importanza.

Codice campanelliano, Biblioteca Comunale di Trento

Nella postfazione dell’edizione Laterza 1997, Norberto Bobbio ricorda una lettera che Firpo gli scrisse il 24 marzo 1943, dicendogli di aver individuato un nuovo codice a Trento: "Me lo descriveva e poi aggiungeva: ‘Credo che meriti di essere studiato perché presenta curiose particolarità’. Concludeva: ‘Un codice a Trento fa pensare alla sosta che colà fece lo Scioppio: insomma c’è da vedere’".

Bobbio stesso si recò poi ad analizzare il codice: "Ho una ragione personalissima per non poter dimenticare che il mio soggiorno a Trento per la lettura del codice avvenne alla fine di aprile del 1943".

Firpo trattò ampiamente del manoscritto trentino nel "Giornale storico della letteratura italiana", nel 1948: è "una per l’addietro ignorata stesura primaria dell’opuscolo campanelliano", contenente la più antica versione del testo a noi pervenuta (derivante dalla prima redazione del 1602); "per essere antichissimo fra i Mss. noti e – come si è detto – singolarmente corretto, è in grado di emendare in almeno 19 luoghi le corruzioni intervenute nel testo vulgato".

Riguardo alla provenienza del manoscritto, Firpo abbandonava la suggestiva tesi del legame con la sosta trentina di Kaspar Schoppe, ambiguo amico del recluso Campanella e diffusore in Europa di molti suoi manoscritti: il volume era "entrato a far parte di quella Biblioteca col fondo costituito da un noto magistrato austriaco, letterato e collezionista, il barone Antonio Mazzetti (1784-1841)".

Il bibliofilo, che fu tra l’altro presidente di Corte d’appello a Milano, l’avrà probabilmente acquistato sul mercato antiquario.

Sarebbe comunque auspicabile uno studio più approfondito, magari patrocinato dalla Biblioteca che ne è detentrice, sulla storia e le origini di questo importantissimo manoscritto: manoscritto approdato nella città del Concilio quasi per legge di contrappasso.

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