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QT n. 9, 3 maggio 2008 Servizi

La pillola abortiva al di là delle ideologie

I vantaggi e i rischi della RU 486. Alcuni elementi per un sereno dibattito che in Italia sembra impossibile.

Sigrid Marchiori

L’aborto farmacologico in Europa è una realtà da vent’anni. I primi Paesi a sperimentarlo nel 1988 sono stati la Francia, la Gran Bretagna e la Svezia. Dal 1999 la RU486 è usata anche in Austria, Belgio, Danimarca, Finlandia, Germania, Grecia, Olanda e Spagna. Tra il 1999 e il 2000 si sono aggiunti anche Svizzera, Norvegia, Russia, Israele, Australia, Nuova Zelanda, Canada e Stati Uniti.

In Italia il farmaco è stato introdotto per la prima volta nel settembre 2005, da quando è partita la sperimentazione all’ospedale Sant’Anna di Torino, e da allora si assiste ad un acceso dibattito tra sostenitori e detrattori che ha prodotto un rallentamento delle procedure di autorizzazione per il suo inserimento nella pratica clinica ordinaria.

Chi sostiene la commercializzazione della pillola anche in Italia si basa sui dati scientifici prodotti in Europa nel corso della ventennale esperienza di uso del farmaco e sulla recente revisione della scheda della Ru486 da parte dell’Agenzia medica europea (Emea), approvata dalla Commissione europea nel giugno 2007, che ha riconosciuto il prodotto "sicuro ed efficace". Chi la osteggia, invece, preferisce prendere in considerazione i soli dati statunitensi, meno confortanti sul lato della sicurezza, e il recente rapporto della società medico scientifica indipendente Promed Galileo. In tale rapporto, elaborato sui dati di una ricerca statunitense e pubblicato in Italia nel dicembre 2007, si sottolinea che l’aborto mediante RU486 potrebbe avere, a parità di età gestazionale, un rischio di mortalità per la paziente dieci volte superiore alle tecniche chirurgiche tradizionali (1 su centomila, contro 1 su un milione). Nel testo si usa il condizionale, perché i dati a disposizione relativi alle due metodologie abortive sono difficilmente comparabili. Da notare, inoltre, che si parla di valori così bassi, che anche accettando la validità dei dati emersi dal rapporto Promed Galileo, il parto, con una mortalità intorno ai 5/100.000, è almeno cinque volte più rischioso dell’aborto farmacologico.

Per quanto riguarda i dati sugli effetti collaterali, essi sono noti da tempo e non hanno suscitato particolari divergenze di valutazione. Grazie a molti studi realizzati in vari Paesi, tra cui Francia e Stati Uniti, si sa che l’aborto farmacologico provoca soprattutto crampi addominali, nausea, debolezza, cefalea, vertigini e, in misura minore, diarrea e vomito.

Sul versante delle complicazioni, invece, il dibattito è più che mai aperto. Molti studi evidenziano la possibilità, stimata attorno al 9% dei casi, di perdite ematiche prolungate fino a 30 giorni e la mancata o non completa espulsione del feto (4-6% dei casi), a cui deve seguire, ovviamente, l’asportazione per via chirurgica. Ciò che desta maggiore preoccupazione, però, sono le notizie riguardanti casi di decesso successivi all’assunzione della RU486. Da nessuna fonte ufficiale è possibile ricavare il dato esatto delle morti correlate all’aborto farmacologico, ma le autorità sanitarie ritengono che solo due possono essere attribuite direttamente alla pillola, per via di emorragie molto forti non adeguatamente trattate. Per tutti gli altri casi, verificatesi in seguito ad una rara infezione uterina da clostridium sordellii, non è stata accertata alcuna correlazione causa-effetto. Il clostridium sordellii è un batterio normalmente presente nella vagina, il quale produce tossine che, finché restano in questo ambiente, non comportano alcun problema per la salute della donna; ma se per qualche ragione raggiungono l’utero diventano letali.

Nonostante la mancanza di prove certe, è proprio sui casi di decesso dovuti a clostridium sordellii che di recente si sono riaccese le polemiche sull’autorizzazione alla commercializzazione e all’uso del farmaco, ossia quando la Exelgyn, la ditta francese produttrice della RU486, nel novembre del 2007 ha chiesto all’Aifa (l’Agenzia italiana del farmaco) di esaminare il dossier per la registrazione della pillola abortiva anche in Italia.

Per capire il tanto rumore provocato dalla richiesta della Exelgyn, dal momento che dalla sperimentazione in atto in sei regioni italiane non è pervenuta alcuna segnalazione di infezioni gravi o fatali associate a clostridium sordellii dopo l’impiego di RU486, si deve tenere conto che l’obiettivo dell’azienda farmaceutica francese è farne approvare l’uso con la sola prescrizione medica, anche al di fuori dell’ambito ospedaliero; in questo modo sarebbe possibile l’interruzione volontaria della gravidanza a casa, attualmente vietata dalla legge 194/78.

Proprio su questo punto, infatti, è noto che poco tempo dopo l’avvio della sperimentazione della pillola al S. Anna di Torino, l’allora ministro della salute Storace la interruppe proprio sulla base di una ipotesi, per taluni pretestuosa, di incompatibilità del metodo farmacologico sperimentato al Sant’Anna di Torino con l’art. 8 della legge, che prescrive che l’interruzione di gravidanza sia praticata "da un medico del servizio ostetrico-ginecologico presso un ospedale generale". In tutto il mondo la RU486 è somministrata a domicilio, ma per ricominciare la sperimentazione il S. Anna ha dovuto modificare l’iter procedurale in base alle richieste dell’ordinanza ministeriale, prevedendo il ricovero ospedaliero della paziente per due notti.

Questi due eventi sono importanti, perché ci aiutano a inquadrare la natura degli interessi sottesi al dibattito italiano sulla RU486. Sullo sfondo di una presunta pericolosità del farmaco abortivo, elemento che certamente non deve essere sottovalutato, si muovono gruppi di pressione sia economici, sia religiosi. I primi fanno leva sul dettato della legge 194, il cui articolo 15 prevede l’aggiornamento "sull’uso delle tecniche più moderne, più rispettose dell’integrità fisica e psichica della donna e meno rischiose per l’interruzione della gravidanza"; minimizzano quindi i dati sulla possibile rischiosità del farmaco ed esaltano la maggiore economicità (anch’essa non provata) della tecnica farmacologica su quella chirurgica, con l’ovvio obiettivo di spingere il Ministero ad acconsentirne la rapida commercializzazione.

I secondi, che dell’opposizione all’aborto fanno una questione di principio per la difesa della vita (salvo poi disinteressarsi dell’esistenza di condizioni socio-economiche adeguate a garantire ai nuovi nati una vita serena e dignitosa), drammatizzano il sospetto di una maggiore pericolosità dell’aborto farmacologico e fanno pressione affinché il farmaco sia somministrato solo in regime di ricovero ospedaliero.

Se non fosse nota la drammatica situazione in cui versano i reparti di ostetricia e ginecologia italiani a causa dell’alto tasso di obiettori di coscienza che si rifiutano di praticare aborti, la posizione di chi sostiene la necessità del ricovero ospedaliero potrebbe essere sostenuta, almeno in via prudenziale e provvisoria. Tuttavia, come sempre in Italia, quando si apre una disputa su temi che le gerarchie ecclesiastiche definiscono "di portanza etica" il confronto sui dati e sulle alternative non è più possibile, poiché si scatenano solo reazioni ideologiche. Da un lato qualcuno ci legge un attacco subdolo all’autodeterminazione delle donne, qualcun altro un ostacolo alla ricerca medico scientifica, mentre dall’altra parte si denuncia la barbarie della civiltà moderna che con troppa facilità mercifica e sopprime la vita.

Uno Stato laico deve tenere conto di tutte le posizioni, sapendo che dietro si nascondono preoccupazioni reali, ma anche mistificazioni e strumentalizzazioni dettate da interessi contrapposti. Per questa ragione la commercializzazione in Italia della RU486, che avverrà in ogni caso per direttiva europea, non avrà effetto sulla sostanza del contendere se la politica non si deciderà a mettere mano su due questioni fondamentali: la prevenzione delle gravidanze indesiderate e la gestione del fenomeno dell’obiezione di coscienza negli ospedali pubblici.

La prevenzione necessita di interventi di educazione sessuale nelle scuole, potenziamento delle attività cliniche e informative dei consultori e libera distribuzione dei contraccettivi di emergenza (la cosiddetta "pillola del giorno dopo", che in Europa è un prodotto da banco, mentre da noi occorre la ricetta medica, spesso negata); e poi servono politiche per la riduzione del disagio socio-economico delle donne e delle famiglie: servizi all’infanzia, appianamento delle disuguaglianze retributive tra uomini e donne, controllo dei prezzi.

La seconda questione sarebbe meno complessa da affrontare, ma siccome per legge non è possibile assumere un medico, un anestesista o un infermiere assicurandosi sulle sue intenzioni in merito all’obiezione di coscienza, si preferisce chiudere un occhio sull’emergenza e lasciare che un ristretto numero di non obiettori (anche questi sicuramente coscienziosi) venga sovrastato dall’intera incombenza. E’ accaduto al S. Chiara di Trento, lo scorso marzo, quando la somministrazione della RU486 ha rischiato di essere sospesa per ragioni organizzative. Nel reparto di ginecologia il personale non obiettore è ridotto all’osso, cosicché, la prima difficoltà, nella fattispecie una specializzanda che se ne è andata via da un giorno all’altro, ha messo sottosopra il reparto.

Visti i fatti, forse è davvero giunto il tempo, per l’Italia, di una sincero esame di coscienza.