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Enea, un immigrato

“Eneide”

Roberto Marafante è romano, per quanto ne so. Vive e lavora (anche) a Trento da molti anni, ormai, e credo che da artista conosca bene le delizie e i dolori del suo (necessario) cosmopolitismo. Però ogni tanto qualcuno penserà: non è di qui. Non è un prodotto locale (come un asparago, una grappa, o i TBSOD). Fa cose strane, che lo identificano. Per esempio, ultimamente si è inventato una bizzarra lettura dell’«Eneide»: Enea era un emigrante. E sì che anche Virgilio lo era stato: si vede, che ne aveva capito il destino.

Dicevo di Marafante, anzi d’Enea: considerare il mitico capostipite dei re di Roma come un immigrato, un extralatino, sembrerebbe eccessivo; anche se altrove gli extra hanno fatto carriera, diventano persino presidenti. Ma qui da noi! «L’Italia non è mica un Paese multietnico!», han detto. Eppure Enea è un profugo di guerra: gli Achei hanno distrutto Troia ed egli cerca pace e fortuna all’estero, vagando con fragili navi (carrette del mare?) alla ricerca di una spiaggia amica. E arriva nel Lazio. Lì chiede ospitalità, ma lo xenofobo locale di turno, Turno appunto, lo accusa di volergli rubare la donna. Anzi, visto che alzare un polverone gli conviene, accusa i Troiani di voler rubare ai Rutuli tutte le donne. Eh, bum! Erano quattro gatti, i Troiani. E mica rubavano; al massimo, si innamoravano (ricambiati). Insomma, Turno la mette sul politico, sfida Enea... e perde.

Ora, ‘sto Marafante immigrato in Trentino, cosa s’è inventato? Non contento di aver letto l’«Eneide» come storia di emigrazione, adatta il testo virgiliano per una recita teatrale e lo affida a immigrati veri (più alcuni italiani solidali). E così abbiamo sentito recitare gli amati versi in italiano, in latino, con suggestivi accenti forestieri, e persino in lingua straniera, e abbiamo visto Didone disperarsi, essere una e molteplice, simbolo di ogni donna abbandonata, ed Enea chiedere pace e dover fare la guerra, e ogni attore, intervistato sui dolori della traversata, raccontare in poche parole le vere, talora terribili, peripezie personali, per arrivare in Italia, non da troiani, ma da afgani, curdi, sudanesi, togolesi...

Passare la “mia” frontiera Germania-Svizzera, quando lavoravo all’estero, era una barzelletta, in confronto al deserto libico, agli aeroporti pieni di soldati, ai campi profughi, al ventre dei Tir sfreccianti sull’autostrada.

A Palazzo Thun, l’8 maggio, e in Piazza Duomo, il 17 maggio, tra il pubblico c’era chi conosceva più Virgilio, chi più l’emigrazione, chi né l’uno né l’altra, ma capiva lo stesso, comprendeva la perfetta immedesimazione di quei sedici attori con la storia di Enea, di Marafante e dei molti altri la cui terra, patria e matria è, semplicemente, la Terra, l’Umanità, il Tempo. Solo le teste di porfido non avrebbero capito, se fossero state presenti.

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