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Le notti bianche

Non è sempre teatro quello che luccica

Torniamo a vedere “Le notti bianche” dostoevskiane, nella versione diretta da Corrado d’Elia, e non ne usciamo conquistati: le illusioni d’amore di un giovane sognatore non paiono particolarmente spettacolari in questo adattamento teatrale, nonostante la buona volontà e le giustificazioni di d’Elia a fine rappresentazione. Fondare una messa in scena, per scelta, “sul niente”, la sfida di voler dar più risalto al sogno che alla realtà, alla rarefazione del gesto scenico più che all’insulso dialogare dei due personaggi, possono costituire un cimento valido per un regista; ma ciò che a questi è piaciuto nella realizzazione dell’impresa è cosa distinta da ciò che dovrebbe incontrare il gusto dello spettatore. Raccontare a posteriori il piacere di far teatro non può servire, insomma, a indorare la pillola. E se la riuscita di uno spettacolo può essere misurata con il desiderio di rivederlo, questa volta l’esito della misurazione rasenta lo zero, malgrado la buona prova degli attori. Benché una regia scarna e statica, in uno spazio vuoto e sfruttato parzialmente, con movimenti ripetitivi, aspiri forse a rinforzare il senso di angustia che pervade una situazione narrativa destinata al fallimento, la coerenza della scrittura drammaturgica non necessariamente si converte in un motivo di apprezzamento da parte di uno spettatore più che ben disposto.

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