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La scuola nei ricordi

Il liceo Antonio Rosmini di Rovereto 1946-1970

Il libro cui è dedicato questo promemoria è uscito nel settembre scorso: presentato in una bella mattinata di inizio anno scolastico, un paio di settimane dopo era già esaurito. Qualche copia forse è reperibile negli armadi dell’Ufficio Istruzione del Comune di Rovereto, un unico esemplare è segnalato in CBT, quello schedato presso la vicina Biblioteca Civica. La fortuna del volume (e più in generale di questo tipo di volumi) sembra soggiacere a una regola ferrea: una calda accoglienza presso un pubblico locale direttamente coinvolto nell’operazione memoriale, una sostanziale incapacità di varcare il confine di questa cerchia amica. 

La limitazione può sembrare ovvia, ma segnala una sottovalutazione dell’interesse narrativo e della portata conoscitiva di quanto ha a che fare con la memoria e/o con la storia delle istituzioni scolastiche.  Il Ginnasio Liceo di Rovereto possedeva già una storia di insolita qualità e originalità, quella pubblicata nel 2003 da Quinto Antonelli con il titolo vannettiano “In questa parte estrema d’Italia…”, che però indicava come proprio termine ad quem il 1945, riservando al periodo successivo solo qualche suggestione nelle pagine conclusive. 

Il volume recente, curato da Roberto Setti e Antonio Zandonati, punta a colmare una parte di quel vuoto, scegliendo una via diversa da quella della ricerca storica in senso stretto. “Il liceo Antonio Rosmini di Rovereto 1946-1970” è costruito attingendo a una composita memoria di studenti e insegnanti, oltre che a una vivace documentazione fotografica, costruita in massima parte sulle fonti personali e private. La vita scolastica è uno degli oggetti privilegiati della fotografia del ‘900: salvaguardare questi materiali, raccoglierli in forme consultabili, studiarli, pubblicarli in una delle molte forme oggi possibili continua a sembrarmi un lavoro culturale fecondo e doveroso, del quale pochissime istituzioni sono consapevoli. Il lavoro di Setti e Zandonati rappresenta un intelligente contributo in questo senso e dobbiamo sperare che costituisca un robusto punto di partenza per un’operazione sistematica da parte del liceo roveretano. La resa tipografica delle immagini non risulta sempre soddisfacente, le didascalie puntano più alla cordialità comunicativa che alla esaustività filologica. Ma quello che conta è che la parte iconografica del volume riserva non solo sorprese ed emozioni per i più coinvolti, ma materiali stimolanti per chiunque sia interessato alla rappresentazione e all’autorappresentazione dell’istituzione scolastica, del mondo giovanile, dei generi, ai mutamenti del costume…

Dei testi, una parte sono attinti dagli “Annuari” più recenti dell’istituto e testimoniano la formazione non improvvisata del libro, che sistematizza un lavorio sulla memoria da tempo avviato; una parte sono scritti per l’occasione, con taglio propriamente autobiografico. Nonostante qualche ovvia difformità tipologica e discontinuità di ritmo, la complessa narrazione a più voci che ne deriva mi è parsa molto avvincente. E’ impossibile qui (e nella microantologia che proponiamo) darne conto in modo esauriente. L’unico scritto diaristico (o comunque coevo alle esperienze che racconta) esce dalle carte di Serena Tiella, studentessa liceale nell’immediato dopoguerra: una pagina piacevolissima, dedicata all’incubo quotidiano rappresentato da un professore di leggendaria severità. 

L’immagine della scuola che esce dalle testimonianze non è sempre benevola. “So soltanto che da questa scuola si è sempre scappati”, scrive una studentessa diventata professoressa, ricordando il clima meno respingente del Prati di Trento, ai suoi anni. Ma forse tra i due principali istituti liceali della provincia c’era un intreccio più complesso: ai miei anni, molti talenti indocili riparavano da Trento attratti dal sapiente paternalismo garantito dal preside roveretano, Umberto Tomazzoni. Paolo Cristofolini (storico della filosofia moderna) ricostruisce un’importante esperienza di protagonismo studentesco, quella del giornalino “Il Mulo”, che negli anni Cinquanta vide insieme cattolici e laici dei tre istituti superiori della città in dibattiti rivelatori di una profonda trasformazione democratica in atto. Alberto Robol, Mario Cossali, Donata Loss, chi scrive ricostruiscono da punti di vista diversi gli anni Sessanta. Particolarmente tagliente ma anche ricco di sfumature il pezzo di Franco Rella: quel liceo era classista e maschilista, eppure…

Sullo sfondo, appena evocata, la desolata immagine delle riforme scolastiche odierne. Anche nella periodizzazione scelta dai curatori, quel tipo di liceo muore nel groviglio del 1968, come il vecchio io dell’esplosione autobiografica messa in scena nel testo (grottesco e lucidissimo) di Diego Leoni.

L’anno della mia morte

“Sono tutti morti, solo che ancora non lo sanno”. E allora continuano a inventarsi cose mai accadute in quel maledetto anno. Così vorrebbero che facessi anch’io. Ma io so di aver ucciso e di essere morto. E dunque taccio. Quanti anni sono passati dalla mia morte? Quarantadue. Come volete che faccia a ricordare. Tutto quel che è accaduto in un anno, in quel maledetto anno, è inciso sulla mia tomba: Città del Messico, Parigi, il Vietnam. Smith e Carlos, Cassius Clay. Bob Kennedy e Luther King. Che Guevara e Praga. Avola. Tutto in un anno. E lo trovate inciso sulla mia tomba, ripeto. E solo per questo potete credere che è accaduto. […]

Ma l’epitaffio è lungo: Lorenzo Milani e i ragazzi di Barbiana, l’Isolotto e la teologia della liberazione, Dietrich Bonheffer, Danilo Dolci e sua figlia Libera. Freud, Reich, Laing e Basaglia. E Marx, Rosa L., Lukàcs, Marcuse, Levi Strauss, Gramsci, Rudi Dutschke. I “Quaderni piacentini” di Bellocchio (Pier Giorgio) e “L’Astrolabio” di Parri, le “Testimonianze” di Balducci e il “Cinema Nuovo” di Aristarco.  E Parker, Coltrane, Holiday, Hooker, Franklin e Charles. Guthrie, Seeger e Dylan. [l’enumerazione è ancora molto lunga, n.d.c.]

Come poteva sopravvivere a tutto questo uno come me che usciva dagli oratori e dalla scuola con gli occhi e il cuore offuscati dal nero delle tonache sacerdotali e dei grembiuli delle compagne di classe? Non sopravvisse, infatti. Morì, sapendo fin da subito di essere morto. Non furono in molti.

(da Diego Leoni, Il millenovecentosessantotto: tutto in quell’anno)

Una scuola ingiusta

l preside era orgoglioso della sua scuola. Ne aveva motivo. Uscivano studenti che avevano conoscenze che oggi si acquisiscono nelle laureee magistrali. Eppure, in quegli anni, il liceo era una scuola ideologicamente orientata e ingiusta. Vi sono tornato come studente lavoratore, come docente a supplenza annuale, solo due o tre anni dopo esserne uscito studente. E già le cose stavno cambiando. L’apertura del liceo scientifico aveva portato una popolazione studentesca nuova. Alcuni rituali erano caduti. Alla presidenza è poi subentrato il professor Giancarlo Tomazzoni, uomo di cultura, politicamente aperto e problematico. Un’epoca stava cambiando, ancora una volta nel bene e nel male. Veniva meno quel senso di appartenenza che era anche di appartenenza alla futura classe dirigente. Diventava una scuola più democratica, più aperta. Uscivano i professori che, come Luciano Miori, erano in grado di intrattenersi con Platone o con Eschilo. Poi si sgranano i decenni, e arriviamo finalmente, o alla fine, alle riforme Gelmini e Dalmaso. 

(da Franco Rella, Era una scuola nazionalista, classista, maschilista)

Il registro della malora

Entra, lento e solenne, il professore. Sale alla cattedra, apre il registro. Gli studenti “facciano silenzio, per favore”. Data, appello. Un momento di mutismo impressionante. Non solo si sente volare la storica mosca, ma si odono persino i gorgoglii delle vorticelle, il fruscio degli atomi nel seno della materia. Tutti gli occhi sono rivolti al registro: lo chiuderà? Non lo chiuderà? Non lo chiude. Lo tiene aperto tra le mani. I suoi occhi percorrono la pagina dall’alto al basso, dal basso all’alto. Gli studenti fissano tremando il suo volto impassibile e seguono col cuore sospeso il truce sguardo che schiaccia inesorabilmente sotto lo spietato torchio il loro povero nome. “Adesso va in su” e tremano i primi in alfabeto, “va in giù” e tremano gli ultimi; va in mezzo, va in qua, va in là, il terrore si sposta dall’uno all’altro, ma passa da tutti, spietatamente. “Adesso ci sono. Adesso me la fa. Non so niente. Che paura. Che fifa. Mi chiama. No, non mi chiama. Ah! se mi chiama. No, no, speriamo di no. Va in su, meno male. No, no, viene in giù. Ci sono. No. Ah! Giù di nuovo. Malora, malora, oh che paura”. Così finché il registro si serra con un colpo secco, e secco secco un nome. Si alza il corrispondente animale, il rumore dei suoi passi è soverchiato dai sospiri dei graziati. 

(da Serena Tiella, Terribile l’aula di scienze e più terribile di tutto il suo nero e solitario abitatore)