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QT n. 17, 16 ottobre 2004 Servizi

Cosa dirà Rovereto a Pertini?

I luoghi più significativi della città ridotti a oggetti di modesto consumo turistico. Quando invece si potrebbe...

Cosa diranno, i rappresentanti di Rovereto, nelle "riflessioni sulla pace" convocate intorno alla Campana dei Caduti per il suo sessantesimo anniversario? Quale impegno della città attesteranno davanti a Pertini, all’ex-cancelliere austriaco Kreisky, davanti a uomini che incarnano un’intera storia di lotte per la causa delle pace? Ho provato a mettermi nei loro panni, a tentare di capire quale forza potranno utilizzare per una riflessione sulla pace che parta da Rovereto, ed ho sentito (per loro e un po’ per noi tutti) difficoltà e disagio.

Non potranno certo vantare la forza di una moderna sensibilità civile e politica sulle grandi questioni di oggi. Rovereto è forse l’unica città del Trentino nella quale la mozione che impegnava alla denuclearizzazione è stata bocciata dal Consiglio comunale, proprio questo lunedì, come involontario ma eloquente sberleffo alla "riflessione sulla pace".

Ma non potranno nemmeno affidarsi a quella straordinaria risorsa che è la memoria della guerra, da cui pure Rovereto è segnata in modo così visibile e ostentato, perché per essa non si è avuto né rispetto né attenzione intelligente.

Propongo un itinerario per alcuni dei luoghi di questa memoria. Al centro della vecchia città c’è il castello, e dentro c’è un Museo, nato da quella Grande Guerra che ha avuto a Rovereto il fronte e ne ha minacciato perfino la sopravvivenza. Ne è stata chiesta da più parti la trasformazione, secondo l’indiscutibile esigenza di avere in città un centro vivo che lavori a una cultura di pace. Ma quel museo dovrebbe essere anzitutto e comunque un efficace strumento di conoscenza della guerra, un percorso che aiuti a capirla, un archivio di oggetti e documenti utili a questo scopo.

Ora non è certo la casa della pace, ma non è nemmeno un luogo dove studiare la guerra. E’, così com’è, una vecchia istituzione che vivacchia abbandonata sostanzialmente dai pubblici poteri e non alimentata da un volontariato cittadino nuovo che possa rigenerarla. Testimonianza limite ma in un certo senso simbolica ne è lo stato dell’archivio: pacchi di documenti, pile di libri, il diario del falegname combattente in Galízia come le lettere dei bambini di scuola che vengono addestrati dalle maestre al culto dell’Eroe e del sacrificio, i segni vivi insomma dell’opposizione alla guerra come della costruzione, del consenso intorno ad essa, sono abbandonati in stanze polverose e inaccessibili, in attesa che un più attento e consapevole intervento dell’ente pubblico ne faccia effettivo patrimonio culturale dei cittadini.

Dal reliquiario del Museo all’Ossario di Castel Dante, l’altro grande edificio che sovrasta, ossessivamente, la città. Si può ricordare, per strada, che sulla sinistra, dove ci sono ora i rosminiani, c’era la casa di Antonio Piscel, il fondatore con Battisti del primo socialismo trentino, la casa dove, nel 1908 Piscel invitava Victor Adler (il leader, della socialdemocrazia austriaca), l’italiano Bissolati, il triestino Pittani per tentare di accordarsi in una comune politica estera di pace prima che fosse troppo tardi.

O fermarsi a guardare, alla Madonna del Monte, la fontanella dove si ritrovavano a bere affratellati, dice la lapide, i soldati dell’uno e dell’altro fronte. O, arrivati alla mole dell’Ossario dentro il quale riquadri a tessera tutti uguali ricordano migliaia di morti d’ogni nazionalità, proseguire verso Costa Violina per la cosiddetta "strada degli eroi", dove un’allucinante processione di altre lapidi ricorda i caduti decorati nei luoghi della guerra fascista: in Africa, in Spagna, in Russia.

Sopra l’Ossario (a piedi ci si arriva anche di lì, per pochi metri di bosco) c’è infine la grande campana che ora si vuol rivalutare come simbolo di pace. Costruita anch’essa dopo il trauma della Prima Guerra, sopravvissuta alla tragedia della Seconda ma non ai disegni di orizzonte paesano che l’hanno confinata ai margini della città e isolata dalla coscienza pubblica. I simboli più vistosi di Rovereto richiamano dunque la memoria della guerra, con l’intenzione proclamata di evitarne per sempre una più terribile replica, pur nell’equivoco della sua sacralizzazione.

Cos’ha fatto la città di questi segni del passato? Li ha depotenziati, marginalizzati, sostanzialmente dimenticati. Com’è forse inevitabile, visto che si tratta in definitiva di segni di morte. Ma col risultato di ridurli tutti a occasione di modestissimo consumo, turistico, e di tanto in tanto (sempre meno per fortuna) a spazio per riti consunti.

Ho scritto queste righe (mi accorgo, mentre concludo, anch’esse "caricate" fuori misura come i monumenti cui si riferiscono) per inquadrare il significato di un "revival" della Campana dei Caduti.

Se non si riattraversa il passato con altro spirito, con altra passione per la sua ricchezza; se questo non serve ad un presente meno smemorato di quello testimoniato dalla sordità della maggioranza del Consiglio comunale, di una rivitalizzazione dei vecchi luoghi simbolici della città faremo volentieri a meno.

Sperando nel contrario, diamo intanto il benvenuto a Pertini, a Kreisky, e a tutti gli altri.

21 settembre 1984