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QT n. 9, 1 maggio 2004 Cover story

Il Trentino conosce la propria storia?

La storia locale, questa sconosciuta. I motivi di un’ignoranza diffusa, e come invece sarebbe importante ed utile un minimo di conoscenza. Lo stato dell’arte di studi e ricerche, le esperienze nelle scuole e nei Musei, la necessità di un lavoro sistematico. La giunta Dellai si ripromette di impegnarvisi, e infatti...

“Rodolfo Belenzani - con una o due elle? - chi era costui?" "Credo sia un nobile del 1400, a capo di una rivolta contro il principe-vescovo..." "No, deve essere del 1500, collegato a Michael Gaysmair...".

Questo ci dicevamo, alcune settimane or sono, nella redazione di QT. In quattro, tutti laureati, tutti interessati alla cultura nelle sue varie forme; e tutti profondamente ignoranti di storia locale.

Il Castello del Buonconsiglio di Trento. Quanti sanno che nel 1523 fu assediato dai contadini in rivolta?

Questotrentino non è un esempio sfortunato. "C’è un problema effettivo di conoscenza della storia locale - ci conferma Margherita Cogo, assessore provinciale alla Cultura - Che è conosciuta solo quando si interseca con la storia patria, come nel caso di Cesare Battisti".

Infatti, andando più indietro, già sull’800, il cittadino comincia a brancolare in un buio che si infittisce se si parla del ‘500 e del ‘600, in cui non sembra essere successo niente, a parte il Concilio di Trento, su cui peraltro le idee sono vaghe; e l’interlocutore trasecola se gli spieghi che nel 1523 Trento fu cinta d’assedio dai contadini in rivolta.

"E’ un problema più generale: tranne che per alcune città come Firenze, la cui storia per chi ci vive coincide con quella del mondo, la storia locale è considerata assolutamente secondaria - ci dice Fabrizio Rasera, autore di diversi studi e fondatore della rivista storica Materiali di lavoro (nonché di QT).

Tutto questo nasce anche da preoccupazioni serie, condivisibili. "Nella scuola c’è il timore, non infondato, che storia locale voglia dire chiusura - afferma Silvano Bert, già docente di lettere alle scuole superiori - E difatti certi corsi d’aggiornamento, certe pubblicazioni hanno presentato una storia locale separata dal resto del mondo: la nostalgia, il culto della tradizione in nome della difesa dall’altro". Insomma il trentinismo becero, il leghismo, le pagliacciate ora celtiche ora pangermaniche, approdate negli anni ’70 fin nella DC, con la famosa invettiva dell’allora presidente della Giunta Grigolli contro le "mani infeconde" degli insegnanti non-trentini che corrompevano le menti dei giovani autoctoni.

E invece no. "La storia locale, vista come momento della storia internazionale, può essere molto utile e importante - sostiene Silvano Bert - E’ una verifica di quello che si apprende, che dà concretezza, immediatezza alle pagine dei libri: attraverso le testimonianze dei familiari o la fisicità dei monumenti e dei reperti".

Studenti in visita alle postazioni militari in Vallarsa.

"E’ un aspetto che verifichiamo con le classi che vengono da noi - conferma Anna Pisetti, responsabile della sezione didattica del Museo della Guerra di Rovereto - Sono tante, 500-600 all’anno, in maggioranza da fuori regione: gli studenti lavorano con entusiasmo esaminando gli originali dei documenti; e collegano gli eventi con le esperienze dei famigliari, con i monumenti storici delle comunità. Dovrebbero fermarsi due ore, in genere si fermano quattro, e gli insegnanti ci dicono che tale interesse invece in classe non c’è".

"Proprio questo misurarsi con i problemi ampi, correlare esperienza locale, anche singola, e storia internazionale, può essere estremamente produttivo - aggiunge Bert - Per esempio, un’unità didattica su Sudtirolo e questione alto-atesina, che abbracci Grande Guerra, fascismo, opzioni, accordo De Gasperi-Gruber: all’inizio quasi tutti gli studenti partono con l’idea che ‘siamo in Italia, si parla italiano’, un’idea che alla fine in maggioranza abbandonano. Questa è consapevolezza, è maturazione".

Il discorso però non si ferma solo alla scuola. Il riconoscersi in una storia, in una vicenda comune, è elemento fondante dell’identità: della coscienza di essere - o non essere- una comunità.

"Non a caso il potere totalitario pretende sempre di modificare la realtà del passato - afferma il prof. Diego Quaglioni, ordinario di Storia del Diritto a Giurisprudenza di Trento - Per conformarlo alla propria visione del presente".

Camillo Zadra, direttore del Museo della Guerra di Rovereto.

"La politica della memoria è basilare: basti pensare ai Serbi e alla pulizia etnica della fine del ventesimo secolo in nome della battaglia del Campo dei Corvi del 1300 - aggiunge Camillo Zadra, direttore del Museo della Guerra di Rovereto - Così per noi: la Grande Guerra era presentata come guerra di liberazione; oggi invece parliamo di storia dal basso, di come è stata vissuta dalle comunità, dei drammi della leva di massa e delle evacuazioni: si è così legittimata una memoria di comunità che pur esisteva, ed ecco fiorire una serie di iniziative: i gemellaggi con i paesi della Boemia dove i trentini erano stati evacuati, le commemorazioni comuni tra le associazioni d’arma di entrambi i fronti...".

Insomma, anche l’auspicata modernizzazione del Trentino deve trovare uno dei motivi di forza proprio dal senso critico di appartenenza ad una comunità. Questo bel concetto è tratto dal programma elettorale del presidente Dellai, che individua nella conoscenza della storia locale uno dei "momenti fondamentali per consolidare l’identità del nostro popolo" un’identità "capace di confrontarsi con altre realtà culturali e con le questioni poste dall’appartenenza europea e mondiale". Ottimo: il ghost-writer ha fatto un buon lavoro.

Per fortuna non ci si ferma alle enunciazioni: vinte le elezioni, la giunta Dellai sembra voler passare dal dire al fare.

Il punto è che i discorsi sopra esposti ruotano in massima parte attorno alla Grande Guerra. Già sulla Resistenza ci sono carenze molto vistose (chi scrive ha avuto il padre esponente partigiano e del CLN di Trento, ed ha incontrato disarmanti difficoltà nel trovare qualche istituzione disposta a lavorare sulle relative memorie; almeno fino a poche settimane or sono, e al varo - meglio tardi che mai - di un programma di studi per il 60° della Resistenza).

Andando poi indietro nel tempo, si ha la sensazione che gli studi siano molto frammentari.

Cioè i soggetti che studiano storia sono tanti, ma manca un quadro complessivo. L’Università studia, per definizione, la storia universale, e si occupa solo occasionalmente di episodi locali. I vari Musei si occupano di uno spicchio della storia. Negli anni scorsi una pluralità di gruppi e associazioni (un nome per tutti, la rivista roveretana Materiali di Lavoro) si è impegnata con grande passione, individuando nella ricerca storica un terreno di impegno politico-sociale: ma tutto questo ha prodotto dei lavori anche ottimi - dalla diaristica dei soldati al fronte, alla storia sociale dei manicomi - ma in un quadro molto frammentato. "Anzi, tutto questo lavoro, fortemente innovativo, ha aperto nuovi campi di studio, ma ha al contempo allontanato il momento della sintesi" - afferma Rasera.

Un notevole lavoro di sintesi è il progetto Il popolo scomparso- di cui è già apparso, e subito esaurito, il primo maxi-volume, solo fotografico; cui seguiranno altri su vari argomenti, Battisti, De Gasperi, l’irredentismo, l’economia, gli sfollati - summa di venti anni di ricerche sulla Grande Guerra. Ma, ancora, siamo sempre su quegli anni. Altre Storie del Trentino sono apparse (la più notevole è quella edita dall’ITC), ma non hanno trovato grandi consensi.

"Il fatto è che, anche a livello divulgativo, si sono fatti passi avanti: e oggi nessuno si accontenta più del semplice racconto del fatto. Si richiedono interpretazioni, giudizi argomentati, paralleli..." Il che richiede approfondimenti molto maggiori che non la semplice esposizione dei fatti ritenuti principali.

"In effetti c’è un problema, di lettura, di interpretazione della storia. Questo è il campo in cui siamo più carenti - afferma l’assessore Cogo.

Di qui l’impegno a darsi una mossa, se si vogliono tradurre in realtà le belle parole del programma elettorale.

Il soggetto che, nelle intenzioni della giunta provinciale, dovrà fungere da centro di studi, ricerche e divulgazione della storia del Trentino, sarà l’attuale Museo Storico, riportando anche in Trentino lo schema che funziona (bene) in Sudtirolo: un Museo Etnografico a San Michele (in Sudtirolo, molto bello, a Teodane, in Val Pusteria), un Museo Archeologico peraltro sempre rimandato a domani (a Bolzano il museo di Otzi), e il Museo Storico, che dovrebbe coprire il periodo dall’inizio del principato vescovile ai giorni nostri (come quello di Castel Tirolo, dal medioevo a Durnwalder).

Tutto questo in collaborazione con l’Università, l’ITC, l’Accademia degli Agiati e i tanti altri soggetti che in provincia si occupano di storia. "Quest’intenzione di affrontare di petto il problema di un coordinamento della ricerca e della divulgazione, è positiva - afferma Camillo Zadra - Poi sarà da vedere se verrà realizzato bene o male, seminando per il futuro o con l’orizzonte dei cinque anni di legislatura."

In effetti la scommessa non è semplice. Per due aspetti.

Il Museo Storico di Trento.

Il primo è che il Museo Storico, come è oggi, non è in grado di svolgere questo compito. Semplicemente non ne ha le forze né le competenze. Sorto nel ’23 come associazione museale privata, per studiare e conservare la tradizione risorgimentale ed irredentista, ha in questi anni di molto ampliato il proprio campo di attività, ponendosi come deposito delle memorie della collettività. Di qui il "Progetto Memoria", con interviste video a una serie amplissima di cittadini: i profughi istriani, gli operai Michelin, i parenti delle vittime di Stava; l’Archivio di Scrittura Popolare, con migliaia di diari e lettere; l’Archivio di Cinema e Storia con 3500 video; il Centro Mauro Rostagno sugli anni dal ’68 agli ’80, ecc. "Questo lavoro di acquisizione, catalogazione, studio e valorizzazione di tutti questi materiali può sembrare disordinato - ci dice il direttore Giuseppe Ferrandi - ma è anche l’unico modo per documentare i processi sociali-politici di questi anni".

Il punto è che il progetto della Giunta chiede al Museo di cambiare pelle: passare da associazione privata, che peraltro vive con soldi pubblici, a soggetto pienamente pubblico; e "da Museo di minoranza (la tradizione battistiana) e delle minoranze, a rappresentante di tutto il Trentino e tutti i trentini. E non a caso - prosegue Ferrandi - non appena abbiamo sostenuto un’iniziativa su De Gasperi, subito abbiamo incontrato delle polemiche".

Non solo: i secoli prima dell’800 per sono sconosciuti per il museo, che dovrà essere dotato "di nuove strutture, risorse, capitale umano" secondo la Cogo.

Di qui le preoccupazioni: di non essere adeguati; e di perdere autonomia, risucchiati tra le spire di mamma Provincia.

E’ comprensibile la preoccupazione di diventare un istituto deputato a innalzare inni alle magnifiche sorti e progressive di un Trentino, teso nei secoli verso l’Autonomia - concede Ferrandi - Però credo che la nostra stessa storia, il nostro lavoro attuale, sia il migliore antidoto: noi siamo quelli che studiano la storia sociale della psichiatria, che vanno a cercare il passato del Trentino anche nei manicomi".

"Il punto è che gli storici non devono subire le interferenze dei politici - risponde Cogo - A livello scientifico le differenze tra destra, centro e sinistra, che pur esistono, come giusto, sono però minori, sono ad altro livello. Quindi, la politica stia fuori dalla storiografia. In che modo? Con la costituzione di un Comitato scientifico autorevole, che raggiunga l’unanimità dei consensi".

Partendo da altri presupposti, a queste conclusioni arriva anche il prof. Quaglioni: "L’Università è l’istituzione naturale deputata alla ricerca, e quindi anche alla ricerca storica. Però la territorializzazione dell’Università è una sciocchezza, essa deve vivere di rapporti mondiali. Ma al contempo è bene che l’Università non sia sola, che ci siano altri istituti che si applicano nella ricerca, e che fra i due livelli ci siano rapporti intensi".

Insomma, l’università è bene che abbia un respiro mondiale, e che non si faccia carico di un rapporto diretto con il territorio, bensì con le istituzioni (Musei, ITC) a ciò preposte; d’altra parte le istituzioni territoriali troveranno alimento e sostegno alla propria autonomia proprio nel rapporto con il mondo scientifico internazionale che l’Università può garantire ("Non dimentichiamolo, Trento è l’università più internazionalizzata d’Italia: in questo momento, nella sola facoltà di Giurisprudenza, ci sono 20 docenti che vengono da tutto il mondo, da Francoforte come dalla Sorbona").

Con questi presupposti, il Museo Storico, avute anche assicurazioni dall’assessore Cogo sul ruolo che continuerà ad avere l’assemblea dei soci, e sulla particolare attenzione verso la storia della città di Trento (che peraltro manca), ha deciso di essere della partita.

A noi sembra una cosa importante; su cui occorrerà vigilare, perché effettivamente la politica stia alla larga (non vorremmo quinquenni di studi sulle foibe, o sulla tirolesità del Trentino, o sulla perpetua lungimiranza del principato vescovile, o sul Concilio "episodio storico e spirituale").

Però sarebbe una bella cosa se si sapesse di più sulla rivolta di Rodolfo Belenzani; se gli studenti, vedendo i nostri monumenti e castelli, li inquadrassero in quella che era la storia dell’epoca. E se le guide, ai turisti che affollano piazza Duomo come altri centri del Trentino, sapessero dire qualcosa di più che non la storia dell’orso.