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QT n. 2, febbraio 2012 Monitor: Arte

Django Hernández

Fantasia cubana

In attesa del tuffo in età vittoriana che sarà a breve offerto dalla mostra Alice in Wonderland (dal 25 febbraio), il Mart dedica un ampio spazio espositivo (fino al 26 febbraio) al giovane Diango Hernández, artista nativo di Sancti Spìritus (Cuba) ma ora residente a Düsseldorf, dopo un lungo soggiorno - per concludere con le geografie dell’artista - proprio in Trentino.

Il percorso, curato da Yilmaz Dziewior e Veronica Caciolli, presenta numerose opere dal 1996 ad oggi, tra cui molte installazioni di grande dimensioni, compresi due interventi site specific, “Resistere” e “A house withouth objects”. Si tratta della prima retrospettiva mondiale dedicata a Hernández, giusto coronamento delle prestigiose tappe degli ultimi anni, Biennale di Venezia compresa.

Classe 1970, Hernández si laurea nel 1994 all’Havana Superior Institute of Design, intraprendendo di lì a poco un’attività artistica che prende inizialmente forma attraverso il disegno, come evidenziano le sale d’apertura. Come capita spesso ad artisti provenienti da terre che vivono forti contrasti politici, le opere di Hernández sono caratterizzate da una forte interiorizzazione sociale, capace di leggere in chiave critica l’esistente. Cuba è in qualche modo per l’artista contemporaneamente vetta e abisso. Un’opera simbolo è ad esempio “The only book” (2008), ampia libreria improvvisata in cui è collocato il libro-bibbia “La guerra de guerrillas” di Che Guevara. E non importa ciò che contiene il testo; il dramma è insito nell’unico punto di vista possibile, nella cancellazione di ogni spunto di diversità. Il talebanismo politico e la sua giocosa sovversione sono al centro di un altro lavoro riuscito, “Dancing with missiles”, video nel quale sono state sovrapposte le riprese aeree di siti missilistici sovietici in territorio cubano ad altre del ballerino Nureyev nel corso della sua prima esibizione dopo la fuga dalla Russia.

In tale polifonia di tecniche (in mostra anche fotografie e dipinti), nell’opera di Hernández un posto di primo piano spetta al prelievo oggettuale dalla realtà, frutto dell’iniziale attività di designer e architetto. In tale recupero e trasformazione dell’esistente la società cubana ha davvero molto da insegnare: stretto nella morsa economica dell’embargo, afflitto dalla penuria quotidiana di denaro e prodotti, il popolo cubano ha infatti raffinato l’arte del riutilizzo, facendo di necessità virtù. Pratiche che anche un Occidente sull’orlo della recessione dovrebbe fare proprie e mantenere, con un accento ecologista, anche in eventuali tempi migliori. Ispirandosi a quest’arte di arrangiarsi propria della sua terra, Hernández dà vita a complesse e giocose installazioni che sconfinano spesso nell’oggetto d’uso e dunque in una forma “low” di design. Tra le tante opere a riguardo, ricordiamo l’insieme di apparecchi radio ricavati da scatole di cartone (“Box radio”, 2003), i nidi per uccelli ambientati in vecchie casse acustiche (“My birds don’t want to come back”, 2006), la camicia riconvertita dai genitori di Hernández in straccio per la polvere e da Hernández in opera, fino al giardino tropicale realizzato inserendo vecchie gambe di tavoli e di sedie in basi circolari di cemento. Cambi d’uso spesso totalmente privi di funzionalità, se non quella, al contempo ludica ed estetica, dell’arte. Esemplari sono a tal proposito le opere che utilizzano come materia prima vecchi pali di legno della luce, con isolatori in ceramica. Tali manufatti, inutili quanto ingombranti, sono stati trasformati ora in una panchina (“Il mio parco”, 2007), ora in enormi matite accatastate (“Power Pencil”, 2007), queste ultime collocate all’esterno dello spazio espositivo, in uno spazio prossimo al giardino delle sculture del Mart, ma comunque visibili dall’interno del percorso.

Infine, un’attenzione particolare meritano le scritte presenti in vari lavori di Hernández, specialmente nelle opere su carta. Scritte ora invisibili, relegate al titolo; ora al contrario capaci di guadagnare una posizione centrale all’interno dell’opera. Sempre comunque tese a lanciare, in maniera più o meno esplicita, messaggi che talvolta diventano slogan. Qualche esempio? “Who want to come back?”. “Crisis are free”. “Stop the progress I missed something”.

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