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QT n. 3, marzo 2012 L’editoriale

Timidi e subalterni

Lo dicono tutti: la fine della stagione del berlusconismo suggellata dalla nascita del governo Monti segna una crisi dei partiti di destra e di sinistra avvicendatisi al potere in questi ultimi 18 anni. Concordiamo: il partito personale di Berlusconi non può pensarsi senza di lui e dopo l’ultima disastrosa esperienza governativa è naturale che non goda di buona salute; se poi ricordiamo come ha gestito la crisi (prima negandola, poi affrontandola in maniera pasticciata) capiamo che anche gli italiani più disattenti hanno cominciato a non fidarsi più della destra. Anche perché - e qui ci riferiamo alla destra presentabile di Merkel e Sarkozy - le ricette liberiste da essa offerte (taglio della spesa soprattutto sociale, rigore fiscale in particolare verso il ceto medio, liberalizzazione del lavoro e dei servizi, centralità del mercato) non solo non risolvono l’emergenza ma alla lunga rischiano di peggiorare la situazione determinando un impoverimento della popolazione, che non solo con il lavoro, ma anche con i consumi, sostiene l’economia di un paese. A questo punto sempre più persone, dagli esperti ai semplici cittadini, invocano un cambiamento di rotta.

D’altronde la sinistra europea, stando ai sondaggi in vantaggio sia in Francia che in Germania, sembra finalmente in grado di presentare ricette alternative: sostegno al reddito (unica via per rilanciare i consumi), un’economia che punta all’ambiente e all’innovazione, una politica fiscale che non teme di utilizzare la leva delle tasse per ridistribuire le risorse, un oculato intervento statale che non dà contributi a pioggia ma premia davvero l’efficienza. Queste non sono le proposte degli indignati o dei no global, bensì di economisti americani come Stiglitz o Krugman e in fondo anche di Obama, che sembra voler ripercorrere, avendone forse la forza, la via d’uscita dalla crisi del ‘29 di Roosvelt con il suo New Deal. Basterebbe proporle anche da noi queste idee. Lo spazio politico e sociale su cui innestare una proposta alternativa ci sarebbe, eccome. Ma il Pd non riesce ad occuparlo. Vuoi per una carenza di classe dirigente (Bersani è bravino ma timido, gioca solo di rimessa trascinato dagli eventi), vuoi per i soliti dissidi interni, vuoi per una oggettiva difficoltà di rapporto col governo Monti.

Il professore, imparagonabile per competenza e serietà rispetto al suo predecessore, resta comunque un uomo sostanzialmente di destra, portatore di una visione politica che rischia di risultare molto stretta a quello che si definisce il maggiore partito della sinistra. Di qui l’ambiguità (ma anche una oggettiva difficoltà) della posizione del Pd, che certamente non può sfiduciare Monti, ma che non può neanche applaudire a tutti i suoi provvedimenti. La via d’uscita sarebbe quella di proporre una linea politica chiara e univoca, forse capace, almeno in parte, di modificare l’agenda governativa; e in ogni caso in grado di evidenziare la differenza tra quello che si approva ora per carità di patria e ciò che si propone per quando si tornerà, dopo le elezioni, a un governo politico. Purtroppo il Pd, stanco e imbrigliato da veti incrociati, questa chiarezza non la persegue.

Anche in Trentino viviamo una situazione simile, con i partiti maggiori in piena crisi. Non parliamo dell’Upt che ha appena celebrato un congresso surreale: la vittoria della candidata “ufficiale” e “unitaria” (?) Fontana sulla candidata “spontanea” (!?) Angeli certifica l’inconsistenza di un partito che ruota intorno a singole figure (Dellai, qualche assessore, forse Grisenti), ma che ha perso il contatto con la realtà, con i sindaci, col fantomatico territorio (categoria cardine dell’immaginario dellaiano di questi ultimi anni). Il dibattito è incentrato ancora una volta sul futuro di Dellai che, in una tragicomica intervista con finale strappalacrime, ha quasi implorato le forze di maggioranza di concedergli il quarto mandato. E la proposta congressuale non migliora il quadro, incentrata com’è sulla ricerca di una fantomatica Autonomia Integrale il più possibile distante da Roma, eco balzana delle istanze sudtirolesi con in più qualche vagheggiamento leghista sui territori del Nord.

A fronte di questa situazione il Pd trentino avrebbe davanti a sé praterie politiche per imporre i propri programmi, rivendicare la guida della coalizione, e battere i pugni sul tavolo. E invece ecco Pacher, ancora una volta precursore del solito “messia territoriale” Dellai, che parla di nuovi soggetti politici territoriali, di fumose definizioni di una autonomia “simpatica” (?), di scenari astrusi, ma sempre accondiscendenti col caro Lorenzo. Quel che è peggio tuttavia resta una sindrome da subalternità. Molti nel Pd sarebbero contenti di un quarto mandato di Dellai e fare i secondi per altri 5 anni, garantendosi una tranquilla rendita di posizione. Non pensiamo però che questo atteggiamento porti lontano.