“Perfido”: ci giochiamo il Trentino
Inquietanti prime battute al processo di mafia. La cosca Serraino allunga i suoi tentacoli.
Molto indicative sono state le prime battute del processo “Perfido”. Hanno definito la posta in gioco: se e quanto il Trentino sia terra facilmente penetrabile dalle organizzazioni criminali.
La Commissione Antimafia già nel 2018 aveva lanciato un allarme sulle “infiltrazioni mafiose” nel nostro territorio; poi l’operazione “Perfido” ha individuato 18 persone residenti in Val di Cembra imputate di appartenere a una “propaggine organizzativa (locale) di tipo mafioso ‘ndranghetista facente riferimento alle cosche calabresi Serraino, Iamonte e Paviglianiti”. Il processo ora deve stabilire se questo è vero, in particolare se i reati di cui i 18 sono imputati (tra cui detenzione di armi comuni e da guerra, minacce, estorsioni, riduzione in schiavitù, coartazione della libertà di voto) o per i quali sono già stati condannati (sevizie cagionanti lesioni gravi e permanenti), siano da inscrivere in un’attività associativa criminale, collegata con la casa-madre e tesa al “controllo diretto o indiretto di attività economiche, di concessioni, di appalti, di servizi” e al “condizionamento dell’azione politico-amministrativa dei rappresentanti politici locali”, nonché “delle più elevate cariche istituzionali locali”.
Insomma, era la cosca Serraino ad essersi infiltrata, anzi egemone, in val di Cembra? E non è che stesse ponendo le basi per condizionare tutto il Trentino?
Questo il tema del processo. Che possiamo ulteriormente semplificare: i vari reati - ovviamente da dimostrare - erano parte di una volontà comune, di un coerente disegno criminale, portato avanti con l’appoggio e l’assenso dell’associazione centrale?
Il quesito, per il Trentino, dal punto di vista sociale, è cruciale: ben diverse sono le cose se stiamo parlando di un gruppo di violenti o se invece di un’organizzazione strutturata, con appoggi nazionali. Ma anche giuridicamente la differenza è decisiva: se infatti viene riconosciuto il reato previsto dall’art. 416 bis del codice penale, cioè l’associazione di tipo mafioso, scattano pene severissime: la sola appartenenza viene punita con la reclusione da 10 a 15 anni.
Una prima risposta non giuridica, anzi, un primo indizio, ci viene fornito dalla stessa composizione dei collegi difensivi. Che vede, accanto alla presenza di avvocati trentini, quella di legali esperti in processi di mafia, anzi di ‘ndrangheta, anzi di imputati appartenenti alla cosca Serraino. Vediamo in dettaglio.
Saverio Arfuso (uno degli “ufficiali di collegamento”, secondo l’accusa, preposto ai rapporti con la Calabria) è difeso dall’avvocato Francesco Calabrese, già difensore di Alessandro Serraino, che è al vertice della cosca.
Pietro Denise (uno degli “uomini di mano”) e Antonino Quattrone (un altro degli “ufficiali di collegamento”, addetto ai rapporti con la Calabria e con ”ufficiali pubblici compiacenti”) sono difesi dall’avv. Giuseppe Nardo, difensore di Angelo Paviglianiti al processo “Ultima Spiaggia”; di Pasquale Pitasi, uno degli uomini di Demetrio e Alessandro Serraino, al processo Epilogo; dei fratelli Fotia, accusati di custodire un arsenale di armi a disposizione (aggravante non accettata dalla Corte d’Appello) della cosca Serraino.
Domenico Morello (“promotore e organizzatore” dell’associazione) è difeso dall’avv. Giacomo Iaria, difensore della ex-direttrice del carcere di Reggio Calabria, rinviata a giudizio per aver concorso “al mantenimento ed al rafforzamento delle associazioni a delinquere di tipo ‘ndranghetistico”, favorendo tra gli altri l’affiliato alla cosca Maurizio Cortese Serraino.
Infine Innocenzio Macheda (“il capo” secondo gli inquirenti, “elemento di primario riferimento in Trentino del clan Serraino”) è difeso, oltre che dal trentino Lorenzo De Guelmi, dall’avv. Giovanna Araniti.
La Araniti è salita alla ribalta giudiziaria per un suo ricorso in favore di Salvatore Francesco Pezzino, condannato all’ergastolo per omicidio volontario di contesto mafioso. Dopo 30 anni di carcere l’Araniti (assieme alla sorella avv. Francesca) ne ha chiesto la liberazione condizionale, non concedibile in quanto Pezzino è detenuto in “regime ostativo”, vale a dire che non può accedere a certi benefici in quanto si è sempre rifiutato di collaborare con la giustizia; e allora l’avvocata ha sollevato l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, e la Consulta le ha dato ragione. Giovanna e Francesca Araniti sono figlie di Santo Araniti, alleato chiave dei Serraino nella seconda guerra di ‘ndrangheta del 1985, capo della commissione ‘ndranghetista interprovinciale, condannato all'ergastolo per uno degli omicidi mafiosi più clamorosi, quello di Lodovico Ligato, ex capo delle Ferrovie dello Stato.
E non basta: oggi Santo Araniti risulta indagato anche per l’omicidio del giudice Antonino Scopelliti. Orbene, la fine dell’ergastolo ostativo (per arrivare alla quale servirà una legge) per Pezzino, sarà applicabile anche ad Araniti padre. Il che ha suscitato fortissime polemiche: da parte di diversi esponenti dell’antimafia, che ci vedono un rafforzamento delle capacità dei boss incarcerati di continuare a spadroneggiare; e più in particolare pesanti critiche sono piovute sulle sorelle Araniti, accusate di essere la longa manus di cotanto padre in carcere. Le avvocate hanno replicato con durezza, minacciando querele a raffica, prendendo le distanze dal padre e sostenendo che “nessuno decide dove nasce, però ciascuno di noi decide chi essere. E noi abbiamo deciso di essere persone oneste”.
Per parte nostra non possiamo che condividere il principio per cui le colpe dei padri non devono ricadere sui figli. Epperò, gentile avvocata, permetta questo pensiero che non ha rilevanza giuridica: se proprio intendeva segnare una sua alterità rispetto al padre mafioso, perché ha scelto nella vita il mestiere di difensore degli imputati di mafia? Perché, per esempio, invece di difendere gli assassini come Pezzino o i presunti capo-mafia come Macheda, non difende le vittime, le parti offese?
Allargando il tema, arriviamo proprio al nostro processo. La linea difensiva degli imputati sarà imperniata sull’estraneità alla ‘ndrangheta: ohibò, la loro non era un’associazione mafiosa, tanto meno era una “locale” della cosca ‘ndranghetista dei Serraino. Eppure… eppure questi cavatori, dalla Val di Cembra, come si sono trovati gli avvocati? Sono andati a prenderseli in Calabria, scegliendo professionisti abituali difensori degli ‘ndranghetisti. E attenzione, non hanno preso dei legali a caso, difensori dei Macrì, dei Piromalli, dei De Stefano… insomma dell’una o dell’altra tra le 166 e più cosche, bensì, tutti, difensori dei Serraino e dei loro alleati. Vorrebbero sostenere che loro con i Serraino non c’entrano proprio?
Questo dato, inconfutabile, pur privo di rilievo processuale, è decisamente inquietante: sarà bene che l’opinione pubblica lo conosca e ci rifletta.
Con tali premesse è subito in linea il primo atto delle difese: spostare il processo da Trento a Reggio Calabria. La finalità è ovvia: si dovrebbe iniziare tutto da capo, gli imputati tornerebbero liberi per decorrenza termini della carcerazione preventiva, e a Reggio potrebbero contare su processi molto più lenti e quindi sulla prescrizione.
Le motivazioni dello spostamento? Proprio il fatto che la Procura contesti l’appartenenza alla cosca dei Serraino, che sono di Cardeto, non di Trento. Motivazione fragile: i fatti, le estorsioni, le intimidazioni, i pestaggi, le frodi, i condizionamenti delle elezioni sono stati tutti progettati ed eseguiti in provincia di Trento (più una diramazione romana), da Cardeto arrivava solo un generico benestare. L’incistarsi di questa attività criminale riguarda il Trentino e la sua società, non la Calabria, è Trento, non Reggio, che deve prendere le contromisure e difendersi.
Anche perché lo spostamento avrebbe un ulteriore deleterio effetto: i testimoni e le parti offese, già passibili di subire intimidazioni, sarebbero molto disincentivati ad effettuare onerose trasferte in Calabria per deporre. In particolare le parti offese, in gran parte lavoratori molto poveri, come potrebbero pagare anche le diarie degli avvocati? Rinuncerebbero. Umiliati e offesi.
Il processo, dopo aver perso la sua valenza territoriale, perderebbe subito anche quella sociale. Sarebbe un pessimo segnale, per tutti.
Il lettore scorrerà queste righe quando il collegio giudicante avrà già deciso sullo spostamento. Auguriamoci che, peraltro in linea con diverse altre in analoghi processi, la decisione sia quella che tutti auspichiamo.
Non sarà comunque un processo facile. Le capacità intimidatorie rilevate nelle intercettazioni, descritte nei documenti dell’accusa, insite nel solo pronunciare il nome ‘ndrangheta, non si sono dissolte con i 18 arresti. In valle ancora c’è chi si rivolge con fare provocatorio e strafottente ai nostri corrispondenti, c’è chi proferisce velate minacce ai testimoni.
Un episodio particolarmente grave è riportato addirittura nei documenti processuali. Il minacciato è il senatore Mauro Ottobre, anch’egli indagato, per scambio elettorale politico mafioso, e al contempo indicato come testimone dall’accusa. O meglio, viene minacciato suo figlio quindicenne. È il giorno immediatamente successivo alla retata che ha portato gli imputati in carcere, e il giovane Leonardo Ottobre nella sua casa di Arco sta chattando su Facebook. Si inserisce un account sconosciuto. Ed ecco come si rivolge al quindicenne.
“Cosa ha fatto quel mafioso di tuo padre?”.
“Cosa c’entra mio padre? Ma poi, chi sei?”.
“Appena salgo su in quel buco di merda che è Arco, per te è finita. E pure per lui”.
“Va bene”.
“Bimbo dimmerda, non lo guardi il Tg?”.
“No, spiegami tu cosa è successo”.
“Non sai cosa ha fatto il paparino?”.
“No”.
“Non si doveva mettere contro la gente sbagliata”.
“Siccome sei venuto ad insultarmi a casa e non ti ho fatto niente, spiegami”.
“C’entra tuo padre. E tu sei suo figlio”.
“E allora perché te la prendi con me?”.
“Me la devo prendere solo con lui?”.
“Vai a scrivere a lui, mica a me. Spiegami, dove è il problema? Non sei neanche di qua”.
“Il problema è che si è fatto cattare. Come lo è lui, anche io e gli altri membri. Sto a Brescia, non siamo poi così lontani”.
”Mio papà è stato cattato per cosa?”.
“Resta il fatto che ha mandato a troie tutto, e ora siamo nella merda”.
“Sei tu che devi parlare con lui”.
“Porcodio bocia, datti una svegliata. Il suo telefono è sotto sequestro. Come cazzo lo contattiamo. Diocane”.
“Ma che cazzo dici? Ma sei fuori? Mio papà è al lavoro tranquillo”.
“Ma non mi frega dove sta tuo padre. Semplicemente il suo telefono lo controllano gli sbirri e noi non possiamo contattarlo. Quindi un paio di noi la settimana prossima verrà su ad Arco per fare due chiacchiere”.
“Va bene”.
“Così al processo saprà cosa dire”.
È stato bravo Leonardo Ottobre: il giorno dopo, accompagnato dalla madre, è andato alla Questura di Riva a denunciare l’odiosa intimidazione. Diversamente invece il padre. Nell’incontro su “Perfido porfido” che abbiamo tenuto nel dicembre scorso a Lona, era presente anche il sen. Ottobre. Ed è intervenuto dal pubblico, millantando di essere stato prosciolto (non è vero), e in un confuso discorso si è espresso con giudizi pesanti sull’inchiesta “Perfido”: “Approssimazioni, falsità,...”.
Gli abbiamo chiesto, a dire il vero con toni un po’ bruschi (non sapevamo delle minacce al figlio), di indicare almeno una delle falsità dell’inchiesta: si è messo a farfugliare, inanellando parole sconclusionate.
Cosa dirà al processo?