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Dal Paese delle aquile all’aquila di Trento

Storie di albanesi, fra integrazione e disoccupazione

Alle pendici del Bondone, da ragazza Elda riversava solitudine e sofferenza nelle poesie: il 7 novembre 1992, 15enne, aveva lasciato Tirana con la mamma e il fratello minore, per raggiungere il papà e gli zii a Garniga. La famiglia vi aveva trovato lavoro, sottraendosi agli ultimi anni della dittatura albanese di Enver Hoxha (leggi Ogia, dal 1945 al 1985 guida del Partito Comunista albanese). Nipote di un commerciante albanese e di una nonna italiana - dunque sospetta, per il regime - Elda racconta che il governo aveva sequestrato una stanza della loro casa e ci aveva messo a vivere una spia che osservava, ascoltava e riferiva. Quando alla nonna Lavinia sequestrarono la radio, perché ascoltava quella italiana, la donna, intimorita, smise di parlare italiano e di insegnarlo ai nipoti.

Ç’farë bej këtu?

Cosa ci faccio qui? Isolamento, diffidenza, razzismo: per Elda la migrazione è stata dolorosa. “A Garniga eravamo i primi immigrati: non si può neanche parlare di ‘pregiudizio’. Quello è nato dopo, quando sono arrivati tanti albanesi che combinavano guai”. La gente la guardava ma non le parlava. E lei, temendo di essere rifiutata, si chiudeva; per lei “la diversità iniziale crea distanze, non curiosità” . Poi Elda ha imparato l’italiano, ha frequentato le scuole e la facoltà di Sociologia a Trento, si è sposata con un italiano e infine ha fatto della sua migrazione una professione, diventando mediatrice interculturale: nelle scuole e comunità trentine alle prese con italiani e stranieri gestisce conflitti e reinventa l’accoglienza, attingendo alla propria identità e all’esperienza di un matrimonio misto: oltre che italiano, il marito è cattolico, mentre lei è musulmana (non praticante). Per i figli dovranno decidere anche di religione e bilinguismo. Dopo 20 anni in Italia Elda si definisce comunque albanese; “Anzi, ho difficoltà a definirmi ‘anche’ italiana!” ammette ridendo. Si sente anche da come pronuncia la R, facendo scattare la punta della lingua nella parte anteriore del palato.

[
p]Anche Leonora Zefi è mediatrice interculturale, ma ci parla in veste di presidentessa di ACDAIT Teuta, associazione culturale delle donne albanesi in Trentino: gli albanesi in regione sono il secondo gruppo nazionale più numeroso (pari al 14,9% del totale di immigrati). Una migrazione iniziata negli anni ‘90, dopo la caduta del regime comunista e in fuga dalla guerra nei Balcani. Una migrazione talmente forte che oggi circa 4 milioni di albanesi vivono in altri paesi del mondo e in Albania poco più di 3 milioni. “I trentini hanno conosciuto i primi 361 albanesi il 14 marzo 1991 - racconta Leonora Zefi - sistemati nelle caserme Giuseppe Degol di Strigno, in Valsugana”. Secondo dati del Cinformi oggi sono circa 7.000, inseriti in tutte le valli trentine e in particolare nella valle dell’Adige e in Vallagarina (ci sono comuni dove raggiungono il 30% della popolazione immigrata). Alla domanda“Perché in Trentino?” Leonora risponde: “Perché c’è lavoro. E gli albanesi sono un popolo di lavoratori: lo dimostra che si sono adattati subito, lavorando nelle imprese più diverse, dall’edilizia alla ristorazione, in ditte di pulizia e nelle fabbriche. Successivamente hanno creato imprese proprie: oggi in Trentino ci sono oltre 341 imprenditori albanesi; 193 nel settore edile”.

L’insediamento “storicizzato” è chiave di lettura del fenomeno economico, perché l’apertura di un’impresa richiede esperienza e conoscenza del territorio.

[
p]Anche le donne albanesi, affrancate da una rigida società patriarcale, oggi sono molto inserite nel mondo del lavoro, in particolare nel commercio. Infine, tiene a dire Leonora, molti ragazzi di seconda generazione vanno all’università: le facoltà preferite sono Economia, Giurisprudenza e Sociologia; giovani albanesi laureati lavorano anche in studi di commercialisti e come assistenti in almeno quattro facoltà dell’Università di Trento. Secondo la presidentessa di Acdait, a parte sporadici fenomeni di razzismo, non ci sono più problemi di convivenza né fra la comunità albanese e quella trentina, né con altre. Anzi, ribadisce che “non esiste una comunità albanese ghettizzata: si fa amicizia come nel proprio paese, con il vicino, con i colleghi, i compagni di università, genitori eccetera”.

Da Madre Teresa a Anna Oxa

Per tutt’altro motivo Genti nel 2003 era diretto a Roma: per la beatificazione di Madre Teresa di Calcutta, al secolo Agnes Gonxha Bojaxhiu, nata nel 1910 a Skopje, attuale Macedonia. Con Anna Oxa e John Belushi, Madre Teresa è tra i personaggi famosi originari dell’Albania.

In Italia Genti incontra dei parenti che lo convincono a rimanere. Dopo alcuni anni a Sandrigo (Vicenza), si trasferisce in Trentino per lavoro. Oggi ha 27 anni e parla molto bene l’italiano, ma il suo primo giorno di lavoro qui (coinciso col primo giorno di lavoro della sua vita) lo ricorda difficile,“perché non conoscevo bene l’italiano. Mi sentivo a disagio perché dovevano ripetermi quello che dovevo fare. E quando sbagliavo mi sgridavano e mi dicevano parole... non proprio belle! E siccome non sapevo come rispondere stavo veramente male!”

Genti sogna un futuro in Albania e conserva la sua lingua e la sua storia, “perché mi dà un’identità: un popolo senza tradizioni è senza cultura”, dice. Racconta la sottomissione agli Ottomani, e poi al regime comunista; sofferenze, trionfi e conquista della libertà. È orgoglioso di farne parte. Il 28 novembre 2012 è stata una data molto importante per lui: il centenario dell’indipendenza dell’Albania da una dittatura feroce, durata quasi 50 anni.

Dell’Albania Genti, Elda e Leonora testimoniano la lunga chiusura delle frontiere, il sequestro delle ricchezze, la proibizione della religione e di ogni festa (tranne Capodanno); la mancanza di libertà di parola e di informazione e tanta povertà. Dell’Italia, il sollievo e la soddisfazione per aver trovato prima di tutto libertà e lavoro. 

Forse in modo insolito per un giovane, Genti parla spesso dell’aquila sulla sua bandiera nazionale: “Il rosso simboleggia il sangue perso in battaglia, il nero il lutto delle madri e mogli dei caduti vestite di nero”, spiega. Il giubileo dell’indipendenza è stato festeggiato in tutta Italia; a Trento con cibi e balli tradizionali e la presentazione del volume curato dalla presidentessa di Acdait Teuta “Dall’Albania al Trentino”, ricerche e testimonianze che ripercorrono 20 anni di immigrazione albanese nella nostra regione.

“Mi stupisce che la gente spesso sia più interessata a sapere quando esce il nuovo i-Phone che a uno scambio culturale con un albanese che vive in Italia!” – conclude Genti, che della sua storia parlerebbe per ore.

Non di solo pane vive un manovale?

Concreto come le pareti che è abituato a costruire, Ardian, di Tirana, 61 anni, una vita trascorsa a costruire muri, da oltre 20 anni è in Trentino, alle dipendenze di varie industrie edili. Arrivato in Italia a 40 anni, dopo aver trovato un lavoro stabile ha fatto trasferire qui anche la sua famiglia, la moglie e i due figli, oggi adulti. Non immaginava, negli anni ‘90, che proprio in Italia, dove aveva cambiato vita, si sarebbe trovato a mani vuote, e ferme, a pochi passi dalla pensione, e con molte meno forze. Forze che oggi non servono solo a spostare mattoni, rimuovere scarti e sacchi di malta, ma anche a sostenere l’incertezza economica: da alcuni mesi Ardian è senza lavoro.

Alla sua età, come per i suoi colleghi di varie nazionalità - italiani inclusi - non è facile trovare un’altra azienda che lo assuma. Per non stare con le mani in mano si è iscritto a un “corso anticrisi” dove impara un po’ d’inglese e di informatica, e le ore frequentate sono retribuite. Fatica molto, perché non è abituato a studiare, non conosce abbastanza bene la grammatica e il computer non l’ha mai usato. “Mi piacerebbe imparare, - dice mostrando un quaderno dove le parole italiane, inglesi e albanesi trascritte da Ardian assomigliano a una neolingua orwelliana - ma non penso che questo corso mi servirà a trovare lavoro”. Con occhi azzurri bassi racconta di essere a disagio: ha smesso di andare al bar a prendere il caffè, perché se incontra un amico che glielo offre, la volta successiva gli toccherebbe ricambiare, ma non può farlo. Non bastano i soldi. Ha quasi smesso di fumare, perché non può più permettersi le sigarette, nemmeno quelle che costano meno. “Ogni tanto compro una confezione di tabacco. Mi arrotolo le sigarette e le metto in un pacchetto da dieci; le faccio durare più che posso”. La moglie e i figli di Ardian – “per fortuna”, commenta – lavorano. La macchina, meglio non usarla. Va a piedi. Se esce. Ma perlopiù sta a casa a guardare la televisione. Conoscenti fanno eco, nel bar di Borgo Valsugana che è spesso ritrovo di albanesi, e raccontano situazioni come la sua. Forse per questo, fra tante parole, dice semplicemente che si sente un mezzo uomo, Ardian, a dipendere dalla moglie e dai pochi soldi che gli danno per qualche giornata di lavoro in cantiere: la maggior parte delle volte, lamenta, se ne approfittano pure e sapendo che ha bisogno di lavorare lo pagano meno di quanto gli spetterebbe. Ma Ardian non può permettersi di rifiutare.

Del giubileo dell’Albania preferisce non parlare. L’integrazione non la sa spiegare e alza le spalle, davanti al bancone del bar: con gli altri manovali a volte va d’accordo, a volte no. Ardian non ne fa una questione di nazionalità, solo di carattere.

 

La colonna sonora di questo articolo

Inva Mula, Lule Bore
Rita Ora, How do we do
Vaçe Xela, Lemza

Per saperne di più
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