La riscossa delle quote azzurre
In Provincia i consiglieri (maschi) bloccano le preferenze di genere, perchè, alla Razzi, si fanno gli affari loro. Ma lo strumento, quanto è efficace? Un dibattito
È di queste settimane la polemica sulla mancata approvazione del disegno di legge sulle doppie preferenze di genere. La misura, consiste nella possibilità, data ai votanti, di esprimere una preferenza per un secondo candidato, a condizione che la scelta ricada su di una persona di sesso differente rispetto a quello del destinatario della prima preferenza. Nell’intento di garantire una maggiore presenza femminile all’interno delle istituzioni.
C’è da fare una nota politica: la maggioranza si è arresa alle opposizioni, che avevano presentato emendamenti a valanga. “Non era possibile andare avanti con tutti quegli emendamenti” è stata la motivazione. Ridicola. Perché se fosse vera, la minoranza avrebbe un potere di veto totale, che evidentemente non ha. Vogliamo scommettere che, quando sono in gioco soldi alla scuola cattolica, se anche qualcuno (i 5 Stelle per esempio) presentasse 5.000 emendamenti, la maggioranza starebbe in aula giorno e notte fino ad approvazione avvenuta?
La realtà quindi è un’altra. Anche la maggioranza era tutt’altro che convinta della legge, anche perché la grande maggioranza dei suoi consiglieri – maschi – avrebbe avuto meno probabilità di rielezione.
Espressa a chiare lettere questa premessa, resta il merito della legge. È giusto, è utile promuovere per legge un maggior ingresso delle donne nelle istituzioni?
Nella redazione di Qt sono presenti idee diversificate, che ci sembrano non banali. Le esprimiamo in queste pagine.
Quote rosa, ottima cosa. Ma non bastano
La discussione sulla doppia preferenza di genere, in Trentino ma non solo, si inserisce nel solco di un più ampio dibattito sulla parità, sui diritti e sul riconoscimento delle differenze di genere.
Conobbi mia moglie in una tiepida serata di tarda primavera e il nostro primo approccio fu un acceso bisticcio sulla questione delle “quote rosa”. Lei era favorevole, ritenendole un utile strumento normativo che, introducendo l’obbligo di un cambiamento formale, potesse fare da traino anche ad un auspicabile cambiamento sociale. Io, con fare a dire il vero un po’ sprezzante, sostenevo l’ambiguità dello strumento stesso; che a mio avviso avrebbe più che altro fornito un alibi a chi, poco interessato alla parità, avrebbe potuto sostenere che “avete voluto le quote, adesso ci sono e dunque dovete starvene buoni”.
Nel tempo ho mutato idea. E sebbene lo spettro del pretesto aleggi ancora, mi sono persuaso che la legge, se ben costruita e poi ben applicata, possa effettivamente rappresentare un’occasione per proporre un cambiamento “a venire”.
È però anche vero, ahimè, che la società italiana anziché emanciparsi intellettualmente sembra regredire verso uno stato di torpore culturale che non lascia intravedere, ora come ora, grandi margini per l’assimilazione del concetto di “parità”.
Proprio la questione culturale è il nodo intorno al quale si articolano le difficoltà sostanziali delle politiche di genere.
Il panorama politico ha espresso e sta esprimendo il peggio di sé. Anche in termini di rappresentanza. L’annichilimento degli ideali e un arrivismo spregiudicato hanno creato un diffuso clima di abiezione che è del tutto indipendente dal genere e dalla sfera sociale.
Vanno fatti i conti con la realtà. C’è una differenza piuttosto evidente tra Rosa Luxemburg e Angela Finocchiaro, così come c’è una distanza culturale abissale tra Matteo Renzi e Antonio Gramsci. Ciò è così evidente da bastare di per sé e da rendere dunque pleonastica qualunque precisazione. In uno scenario del genere, pretendere rigore e passione istituzionale è una colpevole illusione, a prescindere dal sesso, dall’orientamento o dalle abitudini sessuali.
Le possibilità di accesso alla politica per le donne sono state storicamente limitate. In termini numerici, ciò ha causato un imbarazzante squilibrio. Ma contemporaneamente non ha fatto emergere le capacità migliori, quanto piuttosto quelle più funzionali alle assurde logiche di partito. A maggior ragione quindi lo sforzo per raggiungere un equilibrio non può limitarsi ai numeri e alle percentuali.
Giocare con le cifre è semplice e semplicistico.
E parziale. Il problema delle “quote” non riguarda solo le istituzioni e l’impiego pubblico. Quello è semplicemente l’ovvio punto di partenza; ma fermarsi ad esso risulterebbe limitante. Se infatti è vero che nella sfera partitica la gerarchizzazione è talmente forte da poter stroncare qualsiasi velleità d’indipendenza, lo stesso discorso non può valere per il settore privato. Nel quale la logica del profitto, negativa sotto la maggior parte dei punti di vista, dovrebbe per lo meno indurre il reclutamento dei più meritevoli (se non altro in termini di produttività): ecco che dunque l’introduzione di quote potrebbe promuovere un riequilibrio di fatto del sistema. Certo, solo accompagnandosi ad altri mutamenti necessari. Come quello rispetto alla percezione dell’importanza del tempo-lavoro.
Il nostro paese è abituato a valutare la qualità della prestazione lavorativa non in termini di risultati, ma piuttosto di quantità di ore passate sul posto di lavoro. In una logica di questo tipo la donna, quando madre, non può che uscirne perdente. Tralasciando le volgarità, i machismi, le violenze psicologiche e le palpate, mai potrà ambire a ricoprire ruoli apicali, se non sacrificando la propria sfera personale.
Acquisire consapevolezza di ciò non è scontato. Anche a livello di linguaggio. C’è una bella differenza tra prendere per buoni e giustificare i meccanismi della famiglia italiana post-rurale e riconoscere le differenze tra i generi, le loro peculiarità, i punti di forza e quelli di debolezza.
D’altra parte l’argomento è di quelli da prendere con le molle: sembra che sia impossibile affrontarlo in modo neutro.
Perdura a mio avviso la percezione totalizzante del “pregiudizio maschile”, secondo il quale un uomo non sarebbe pienamente titolato a parlare di questioni di genere a causa del pesante fardello culturale maturato nei secoli; e del quale l’uomo stesso dovrebbe essere vittima – per trasformarsi di conseguenza, automaticamente, in carnefice. Un fardello, attenzione, che non va preso alla leggera: ma che neppure può diventare una pregiudiziale nel dibattito storico e politico.
Di fatto oggi qualsiasi opinione, quantunque personale, può diventare occasione per rilanciare la polemica.
È ciò che è successo a Piergiorgio Cattani, che in un suo editoriale pubblicato sul “Trentino” cercava di sganciarsi dal dibattito di genere nella valutazione del buon agire politico.
“Non basta essere donne per governare bene. Più che al genere, credo che occorra guardare le idee”, ribadiva Cattani ancora sul “Trentino” il 10 maggio, in risposta alle critiche ricevute per il suo precedente editoriale.
Gli rispondeva, sulle pagine del quotidiano, Donata Borgonovo Re: accogliendo in parte la posizione di Cattani, ma rilanciando l’opportunità di una “politica al femminile” per giungere ad una democrazia compiuta.
“Vorremmo perciò che le idee, le competenze, il famoso ‘merito’ potessero emergere in una dimensione di pari opportunità, vorremmo che donne e uomini con eguali strumenti di partenza potessero presentarsi agli elettori (parliamo di rappresentanza politica e dunque parliamo di cittadini che selezionano i loro rappresentanti) con le loro proposte e le loro differenti sensibilità; - scriveva la consigliera - vorremmo che la complementarietà di attitudini e di talenti che appare così proficua (non facile né agevole, ma proficua) nel mondo delle professioni, fosse presente anche nel mondo istituzionale e dunque incidesse sulle decisioni politiche”.
Un simile discorso, da parte di Borgonovo Re, è accettabile, solo nell’ottica di un auto-convincimento retorico: una forma di training autogeno che speriamo possa esserle utile per il suo futuro percorso politico. Perché non possiamo dimenticare quale fu il suo atteggiamento (rinunciatario, intimidito, di totale subalternità) sia in occasione delle elezioni comunali del 2009 che in quella più recente della sua forzata rinuncia all’assessorato provinciale alla Salute. In entrambi i casi, Donata Borgonovo Re venne “convinta” dai vertici del suo partito a fare un passo indietro: ed in entrambi i casi lo fece, adducendo motivi personali anziché riversando una violenta – e sacrosanta! – incazzatura verso i vertici (arroccati e maschilisti, quelli sì) del Partito Democratico che pretendevano di decidere, in vece dei cittadini, chi dovesse essere il candidato o l’assessore “giusto” (maschio, naturalmente).
Questo tipo di subordinazione sembra del resto essere la cifra delle nostre consigliere provinciali targate PD: essa emerge spesso quando si tratta di discutere di questioni dirimenti. A dimostrazione, fino a prova contraria, di una deprimente inconsistenza politica.
Difficile capire se essa sia legata all’essere donna in un ambiente gretto e maschilista o all’incapacità di far pesare, in termini politici, il proprio ruolo.
In entrambi i casi, il ruolo stesso viene svuotato. Personalmente non voglio avere in Consiglio provinciale una rappresentanza per metà femminile, se la rappresentanza deve essere questa. A dire il vero, data la qualità dimostrata, non vorrei avere nemmeno la metà maschile. Vorrei avere degni e stimabili rappresentanti, ecco.
Perché ciò accada, credo che la nostra realtà debba trasformarsi profondamente attraverso un percorso culturale rispetto al quale – apparentemente – non siamo pronti. Nei fatti, non a parole. Se a ciò può essere utile uno strumento normativo, ben venga. Ma guai ad accontentarsi di quello.
Luca Facchini
Non aspettiamoci dai maschi che liberino le poltrone per noi
Ho ascoltato un pomeriggio “Quote rosa”, una trasmissione della Rai di Trento in cui le alpiniste raccontano la loro esperienza di vita e di arrampicata. Dunque in Trentino le donne come ovunque arrivano in cima alle montagne. Le donne vanno nello spazio, dirigono gli esperimenti di fisica più importanti del secolo, sono giudici, avvocati, insegnanti, imprenditrici, lavorano più degli uomini, pagano le tasse. Ma non entrano negli organi legislativi ed esecutivi di una democrazia malata, dove chi detiene il potere lo fa escludendone la maggioranza della popolazione, le donne appunto.
Ho sentito uomini piuttosto incolti invocare la meritocrazia come criterio di selezione della classe dirigente, per escludere meccanismi che il mondo civile ritiene da moltissimo tempo adeguati per superare l’intollerabile esclusione delle donne dai luoghi della decisione politica. Non si rendevano conto che se si fosse applicata la meritocrazia, loro non sarebbero stati là dentro. Nella mia esperienza le donne in politica avevano tutte un livello superiore di istruzione di quello della maggioranza dei colleghi maschi. Non erano necessariamente migliori, ma erano certamente più preparate. Per ciò che riguarda l’esperienza di vita e di gestione economica, cose che dovrebbero contare parecchio in chi governa la cosa pubblica, le donne hanno più esperienza da vendere: nella cura dei propri cari imparano di che cosa c’è bisogno nel campo dell’assistenza e della sanità; con i figli apprendono a capire come dovrebbe funzionare la scuola; nella gestione di bilanci familiari anche molto scarsi, che cosa è importante nell’economia; nelle loro corse quotidiane come dovrebbero funzionare i trasporti pubblici in un paese civile; sono maggiormente interessate alla cultura e leggono di più dei maschi. Eccetera. Tutto questo oltre alle loro competenze professionali che sicuramente non possono essere messe in discussione da certi (non tutti ovviamente) nullafacenti e nullasapienti che occupano le poltrone dei palazzi della politica.
La politica non è quella porcheria di oggi, dove tutti concorrono per mettersi in mostra o addirittura per guadagnare quello che nella loro vita normale non riuscirebbero mai, ma è invece – o dovrebbe essere - il sistema che permette a tutti coloro che pagano le tasse di co-decidere come devono essere spesi i soldi incassati dallo Stato per il bene di tutti.
È intollerabile che le donne lavorino molto di più degli uomini e che questi ultimi decidano per loro. Non è un caso che le donne lavorino di più e siano pagate molto di meno. Chi non fa le leggi e non prende i provvedimenti che contrastino questa situazione indecente? Ve le immaginate le assemblee di maschi che approvano norme sulla condivisione dei lavori di cura come in Norvegia o in Svezia o in Francia? L’assenza per paternità in Italia, dove governano gli uomini contro le donne, è di due giorni. Non avete bisogno di immaginare niente. Si vede proprio dai risultati.
Una parte degli stessi partiti che tengono fuori le donne dalla politica, per iniziativa loro o per non fare abbastanza, discutono del voto agli immigrati. Io darei prima il voto alle immigrate e poi con calma, dopo un po’ di tempo, ai loro uomini. Ne abbiamo fin troppo dei nostri.
Il Sudtirolo non è diverso dal Trentino. Le due Province approfittano dell’autonomia per rimanere indietro nei diritti civili. Si può ben dirlo per il Sudtirolo, che è arrivato ultimo nel recepimento della riforma sulla disabilità, ultimo per la legge sulla valutazione d’impatto ambientale e ancora non prevede nulla per la parità di genere con la scusa che “non trovano le candidate”. L’unica volta che il numero di donne è aumentato è quando a Bolzano abbiamo fatto una lista rosa. Allora si sono affrettati tutti a mettere in lista le donne, le hanno trovate!
Ecco, io penso che le donne oggi dovrebbero fare un proprio partito o almeno delle liste alle elezioni. Dovrebbero riprendere a lottare per il diritto alla rappresentanza, e mettere nel programma elettorale le cose di cui c’è bisogno. I temi che rendono la loro vita faticosa, ingiusta, spesso troppo dura, le cose la cui mancanza distrugge le famiglie e impedisce la felicità. Per gli uomini sono poco importanti. Ma se le donne lo facessero farebbe bene anche a loro e a tutta la società.
Alessandra Zendron
Una battaglia di retroguardia, cura un sintomo, non la malattia
È di queste settimane la polemica sulla mancata approvazione del disegno di legge sulle doppie preferenze di genere.
Tralasciando un’analisi strettamente politica della vicenda, con una maggioranza che si sfalda e si dimostra ben poco compatta sull’argomento, facendo naufragare la proposta di legge, ci sono da fare, a mio avviso, alcune importanti considerazioni.
In chi ha avanzato una proposta del genere c’era la nobile volontà di risolvere un indiscutibile (?) problema: la scarsa presenza delle donne in seno alle istituzioni. Ma siamo sicuri che quella prospettata sia la soluzione giusta?
Imporre che almeno una delle due preferenze venga data ad una donna avrebbe certamente rimpolpato la presenza femminile in consiglio provinciale, ma al contempo avrebbe dato solo l’illusione di risolvere il problema, rischiando di conseguenza di rallentare la marcia verso una reale e piena uguaglianza.
Introdurre un correttivo del genere significa accettare di giocare con delle regole che non piacciono del tutto, ad un gioco a cui si sa già di non poter vincere; significa partire dal presupposto ottocentesco di una donna debole che ha bisogno di assistenza, presupposto che invece si dovrebbe voler sgretolare; significa non mettere in discussione, anzi adeguarsi ad una visione maschile, quando non maschilista, del mondo e della politica; significa accettare regole vetuste e anacronistiche invece che sovvertirle e rivoltarle.
Ecco perché discussioni come questa rischiano di essere (o di trasformarsi in) battaglie di retroguardia: questo dibattito ignora mezzo secolo di lotte e di conquiste, perché parte, ancora una volta, dall’idea della donna come di una minoranza da difendere e tutelare.
Intendiamoci: il problema esiste ed è sintomatico di una società maschilista. Chi è convinto della necessità di una maggiore presenza femminile nelle istituzioni, sa che con un provvedimento del genere potrebbe anche ottenerla. Ma non è così che verrà scalfito il maschilismo del paese. Le diseguaglianze rimarranno nella società, perché soluzioni come quella prospettata non ricercano quella che è la causa della “malattia”, ma riescono a malapena a curarne il sintomo.
Ci si limita a spingere i partiti a cercare di riempire i vuoti necessari per presentarsi alle elezioni con una lista che abbia il giusto numero di donne, magari a prescindere dalla loro reale volontà di partecipare alla vita politica della propria comunità; e peggio ancora è un sistema che rischia di creare un corto circuito in cui si corre il pericolo di non tenere conto della qualità delle loro competenze: “è stata messa in lista (o è stata eletta) perché donna” sarebbe a quel punto, per un maschilista, una troppo facile, per quanto becera obiezione.
Una legge che impone ad un partito di candidare una donna per ogni uomo in lista, o che impone di esprimere una preferenza alternata uomo/donna, è una legge che accetta e che prende come punto di partenza quella stessa situazione di discriminazione che dovrebbe invece, stando alla costituzione, riconoscere e rimuovere. È una legge che magari riuscirà a rimuoverne gli effetti (curarne il sintomo, appunto); ma rimuovere gli effetti non significa rimuoverne le cause. E, se le cause restano, significa che le donne, allorché più presenti in parlamento, in consiglio o più in generale nelle istituzioni, saranno comunque presenti in istituzioni rappresentative di una società maschilista che, senza una imposizione del legislatore, sarebbero governate solo da uomini.
E allora, a cosa serve fare entrare le donne nelle istituzioni se poi nella società si continuano ad alimentare disparità, se le donne guadagnano meno degli uomini, se sono licenziate perché restano incinte, se sono lasciate sole coi figli, se sono molestate sul posto di lavoro?
Ecco, sono convinto che potrebbe essere sintomatico di una società maschilista anche solo il sollevare il problema della mancanza di donne nelle istituzioni, perché in una società di eguali, con pari diritti e pari opportunità, non dovrebbe importare che a scrivere le leggi sia un uomo o una donna, un bianco o un nero, un eterosessuale o un omosessuale.
E, d’altro canto, chi sono le donne che vogliamo nel nostro parlamento o nel nostro consiglio provinciale? Che idee hanno? Esistono donne che credono che il loro ruolo nella società sia quello di crescere e accudire figli. Siamo sicuri di volere che siano loro le portatrici dei diritti delle donne?
Mi ha sempre insospettito, fin da quando in parlamento si creava l’asse Bindi-Brambilla sulle quote rosa, questa presunta trasversalità che si sbandiera su questioni del genere (di genere).
Da destra a sinistra le donne unite, in quanto donne.
E anche qui mi sembra che si faccia il gioco di chi ha sempre cercato di ricondurre tutto ad una questione di genere: chi si batteva per una società di pari diritti e pari opportunità veniva acriticamente definito “femminista”, con le donne identificate col loro sesso, veniva accentuata al massimo l’appartenenza di genere a discapito delle idee personali.
Ecco, sono convinto che si debba ricominciare a parlare di idee, lasciando perdere il sesso: perché volere una donna in parlamento o in consiglio provinciale per il solo fatto che sia una donna, potrebbe essere esso stesso un fatto sintomatico di una società maschilista.
Joshua De Gennaro