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QT n. 10, ottobre 2017 Monitor: Danza

“Ancora Oriente occidente 2017”

Nel segno dell’inclusione

Finale all’altezza delle aspettative per la 37a edizione del Festival Oriente Occidente, che negli ultimi giorni di programmazione ha visto un susseguirsi di spettacoli di grande impatto scenico e - a giudicare dal tutto esaurito e dal fragore interminabile degli applausi - di grande successo di pubblico. Tra le performance attese con maggior trepidazione c’era quella della compagnia diretta dalla coreografa brasiliana Deborah Colker, che con “VeRo” ha portato a Rovereto l’energia strabordante di movimenti e colori tipica del suo paese d’origine. Lo spettacolo, che lo scorso anno ha inaugurato la cerimonia di apertura dei Giochi Olimpici di Rio, è un potente mix di atletismo e virtuosismo, che non può che lasciare a bocca aperta gli spettatori davanti alle evoluzioni dei 14 danzatori-climber, intenti prima ad arrampicarsi su una parete di 7 metri d’altezza e poi a volteggiare appesi a un’enorme ruota in moto perpetuo al centro della scena.

Più intimistico e narrativo “La Fresque”, ispirato all’antico racconto cinese “La pittura sul muro”, da cui il coreografo Angelin Preljocaj ha preso spunto per un riflessione a passo di danza sul posto dell’arte e, più in generale della rappresentazione stessa, nella società contemporanea. Spettacolo raffinato ed esteticamente molto curato ma dall’esito un po’ asettico: gli interpreti, tecnicamente ineccepibili, non riescono a liberarsi fino in fondo del velo nero che li separa dal pubblico e che metaforicamente divide la realtà dall’immaginazione.

“Beyond Time”

Affonda le sue radici nell’estetica e nelle arti della tradizione orientale anche il lavoro del gruppo di danzatori e percussionisti taiwanesi U-Thatre, interpreti di “Beyond time”, performance letteralmente “fuori dal tempo” che con i suoi ritmi percussivi mira - nelle intenzioni del suoi creatori - a condurre gli spettatori in uno stato meditativo atemporale; peccato che dopo il rapimento iniziale per una coreografia in cui i movimenti dei danzatori si fondono alla perfezione con il battere dei tamburi, le cose si ripetano troppo uguali a se stesse e il tempo che passa inizi a far sentire il suo peso virando velocemente dalla fascinazione alla noia. Una certa monotonia contraddistingue entrambi gli spettacoli che non riescono a mantenere fino in fondo la tensione creativa generata da alcune trovate coreografiche d’indubbia originalità. Lo stesso vale anche per alcuni spettacoli di “Cid Cantieri”, sezione dedicata alle nuove promesse della giovane danza italiana; in particolare “Vanitas” (Fattoria Vittadini) e il riallestimento in chiave contemporanea de “Lo schiaccianoci” (Natiscalzi dt), non reggono il confronto con le proposte maggiori del Festival, pur essendo entrambi costellati di idee suggestive, ma amalgamate in un calderone eccessivamente pretestuoso; molto più gradevole nella sua semplice linearità “Crossover” di Manolo Perazzi che, insieme a Salvo Lombardo e Irene Russolillo (dei quali si è parlato nella recensione precedente), si rivela uno dei giovani autori più interessanti del panorama nazionale.

Spenti i riflettori sugli appuntamenti di maggior richiamo del Festival, merita una menzione speciale il progetto “Moving beyond inclusion”, che da due anni vede Oriente Occidente capofila di un programma di respiro europeo volto ad ampliare la conoscenza e la pratica della danza “inclusiva”, che mette fianco a fianco persone disabili e danzatori professionisti per abbattere le barriere mentali, oltre che fisiche, all’interno del mondo della danza convenzionale. Esemplari in tal senso gli spettacoli proposti dalla compagnia Balletto Civile e dalla Candoco Dance Company, pioniera nell’ambito dell’integrazione di danzatori abili e diversamente abili; anche se con poetiche agli antipodi entrambi lasciano il segno, il primo grazie alla sottile ironia con cui induce a riflettere sul tema della diversità, il secondo per l’assoluta naturalezza con cui accosta in scena le diverse abilità dei suoi interpreti, nel segno di un comune “saper fare” (can do) che connota il nome stesso e la filosofia della compagnia.