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QT n. 3, marzo 2018 Cover story

L’anno in cui i giovani contagiarono la società

All’inizio fu l’autoritarismo. Anzi, l’anti-autoritarismo. Anzitutto uno scatto di dignità, poi, lentamente, una ribellione. Non era giusto farsi trattare in quella maniera: “Se un professore di Scienza delle Costruzioni vuole farci studiare le mestruazioni delle formiche, non ci sono santi, noi dobbiamo studiare le mestruazioni delle formiche” mi diceva un compagno di corso. Era uno stato di inferiorità, di autentica minorità che i venti-venticinquenni universitari si trascinavano dal liceo, dall’adolescenza: a scuola il preside con due urlacci ti spediva a casa se indossavi i jeans e se eri donna ancor peggio, eri obbligata a indossare, con la stessa logica del burka, un grembiulaccio nero a nascondere il corpo, che non desse scandalo.

La giovinezza era sinonimo di irresponsabilità, gli universitari inquadrati in confraternite goliardiche, bonariamente accettate dalle autorità accademiche, dove più contava chi meno studiava, dedite a grevi scherzacci e a turpiloquio che si riteneva creativo. Eravamo rinchiusi in un recinto: voi giovani valete poco e contate niente.

A Padova la cosa la vedemmo plasticamente, nel gennaio del ‘68, all’aula magna di Ingegneria: dopo ore di infuocata assemblea entrarono il Preside e il professor Merigliano (che sarebbe diventato Rettore, naturalmente Magnifico). In un corridoio centrale incedevano lentamente, causa gli acciacchi del preside ma soprattutto a sottolineare la gravità della loro presenza: intimoriti, ci alzammo tutti in piedi. Quando si furono assisi sugli scranni della presidenza, alcuni di noi spiegarono le decisioni che si discutevano: se occupare la facoltà, con quali motivazioni, quali modalità… Merigliano interruppe di brutto, con due urla azzittì chi gli parlava, e rudemente ci mise in guardia dall’oltrepassare il limite della legalità, cui eravamo irresponsabilmente vicini. Noi, tutti con le orecchie basse. Io avevo un buon rapporto con lui, mi era anche venuto incontro sulla data di un esame: gli parlai in tono conciliante, sostenendo però che l’occupazione della facoltà, a cui – sottolineai - non ero favorevole, era una modalità di manifestazione sociale solo formalmente illegale, come lo erano stati gli scioperi 80 anni prima…

Mi interruppe con veemenza, urlandomi contro; urlai anch’io e a sostenermi vennero altri, e a sostenere lui altri studenti (“i figli dei professori” li avremmo poi sprezzantemente chiamati); in breve ci fronteggiammo in due gruppi bercianti. Dopo un po’ ci acquietammo tutti: cosa mai stavamo facendo? Ritornò la calma, l’assemblea si sciolse. Ma ormai era stato rotto un tabù: il giorno dopo, tutti o quasi così in facoltà commentavano: “Alle nostre assemblee non deve più venire un professore a dirci lui cosa dobbiamo fare”.

Poi fu tutta un’accelerazione. Vedevi, sentivi, le tue idee, le tue convinzioni che si approfondivano, mutavano, si evolvevano, discutevi e scoprivi nuove cose prima impensate, nuovi punti di vista. All’università subito dopo l’autoritarismo mettevi in discussione la didattica, di cui ai professori interessava ben poco, perché noi non contavamo e non gli interessavamo, e la loro carriera dipendeva da tutt’altro; e quindi contestavi la struttura stessa dell’accademia; e poi, di conseguenza, i contenuti del sapere che ci trasmettevano. Subito l’orizzonte si allargava. A dismisura: la repressione sessuale, ingombrante per i maschi, pesantissima sulle femmine; l’autoritarismo nella famiglia (tra i miei amici ero l’unico, a 17 anni, ad avere le chiavi di casa, “Hai una famiglia socialista” mi dicevano gli amici, con benevola invidia).

Non erano più cose accettabili: si diventava “contestatori”, mettevamo in discussione, con le parole e i comportamenti, principi ritenuti fondanti e immodificabili: “Ma come – mi chiese sbalordito mio padre, e per ben tre volte – tu sposeresti una ragazza che è stata con un altro?”.

Ormai l’attenzione non era più solo sull’università. Se come giovani, come studenti eravamo irrilevanti, trattati a pesci in faccia, dovevamo guardare agli altri nelle nostre condizioni; se l’autoritarismo ci era ormai insopportabile, dovevamo tendere a una società basata su altri rapporti: una società fondata sull’uguaglianza. Di qui l’attenzione e l’interesse prima, la commistione poi, con chi di autoritarismo e disuguaglianza più soffriva: a iniziare dagli operai, che per di più non si limitavano a subire la propria condizione, anzi in quegli anni avevano maturato strutture organizzative efficaci, democratiche, che ci sembravano addirittura prefigurare un nuovo assetto sociale.

Il movimento, non più solo studentesco, dilagò. Nella società, coinvolgendo in pieno le fabbriche e i sindacati; ma anche in ambiti impensabili, come le strutture dove più consustanziale e terribile era l’autoritarismo: quelle psichiatriche, arrivando alla chiusura (anche se per molti anni non compensata da servizi di supporto sul territorio) dei manicomi, autentici infami lager; come pure in settori (non solo) teoricamente nemici come la polizia, dove si affermò e divenne maggioritario un sindacato – il Siulp – a noi ideologicamente vicino. E addirittura nella Chiesa: struttura autoritaria per eccellenza, sessuofoba fino alla disumanità, già incrinata nelle sue sicurezze dalle stesse aperture del Concilio Vaticano II, non poteva non essere investita da un movimento egualitario e libertario; in Italia sorsero così i “cattolici del dissenso” e a Trento otto studenti, con un documento contro la scuola confessionale, passarono dall’Arcivescovile al Liceo Prati, dove poi convinsero la loro classe a rifiutare l’insegnamento della religione; e un gruppo di nove studenti in teologia lasciò il Seminario pubblicando una lettera di denuncia (sottoscritta da altri 20) contro le resistenze al rinnovamento nella Chiesa.

Il movimento dilagò anche nella cultura, con le contestazioni ai Festival del Cinema e ai Premi taroccati, con una rinnovata attenzione ai temi sociali; in diversi settori divenne anzi egemone - per tramutarsi con il tempo in moda (in seguito sbertucciata) – ma contribuendo a reindirizzare alcune coordinate del pensiero: basti pensare alla storia dell’arte, vista in rapporto con le dinamiche sociali; o gli stessi studi storici, con l’attenzione alla vita, sentimenti, opinioni, condizioni di soldati, operai, contadini.

Maturavamo in fretta. Bastava che passasse un’estate, tra discussioni, nuove letture e qualche viaggio: quando ci si ritrovava, si vedeva che tutti, per percorsi diversi eppur spesso paralleli, avevamo fatto dei passi in avanti. E si tornava a confrontarsi: ormai l’obiettivo non era più come cambiare la scuola, ma come cambiare la società, secondo linee che ci sembravano semplici e chiare: meno individualismo, più democrazia, più uguaglianza.

Su questo ormai stavamo modificando le nostre stesse vite: uguaglianza voleva dire sobrietà anche per chi era benestante: non si doveva spendere più di un salario operaio, l’eskimo (giaccone verde, brutto, povero e pratico) non era solo una divisa, era un manifesto; impegno voleva dire studiare, informarsi, dedicarsi alla militanza, non perdere tempo dietro a sciocchezze (come ad esempio lo sport, che molti a livello agonistico abbandonarono); nuova società voleva dire non frequentare solo i soliti amici, nacquero spontaneamente i collettivi operai-studenti, che non solo facevano insieme agitazione sociale, ma assieme vivevano, si divertivano, amavano.

Era anche il mondo che cambiava con noi e attorno a noi. Dal Giappone alla Cina all’Europa con il maggio francese e la primavera cecoslovacca, agli Usa della grande mobilitazione contro la guerra del Vietnam, all’America Latina con i 300 studenti uccisi alle Olimpiadi di Città del Messico, la Cuba di Che Guevara, il Cile di Salvador Allende. I giovani di tutto il mondo si sollevavano; cantavano le stesse canzoni; credevano negli stessi miti: il Vietnam che con la forza della volontà resisteva al Golia americano, la Cina di Mao-tse-tung, che dalla mobilitazione degli studenti trovava la forza per avviarsi vero una società (rigidamente) egualitaria, i neri americani che cercavano di ribaltare secoli di discriminazione e sfruttamento.

Tutto questo poi si incanalò in attività politica. “Politico” era allora un aggettivo estremamente positivo, voleva dire lungimirante, altruista, efficace. E per essere efficaci e coerenti in molti fecero scelte anche molto radicali: laureati che andavano a lavorare in fabbrica come operai; o – come chi scrive – che facevano il servizio militare non da ufficiali ma da soldati semplici, per contrastare attraverso l’attività politica fra la truppa, possibili velleità golpiste dell’esercito.

La traduzione politica dei nostri ideali però non si rivelò facile. Molte furono le conquiste a livello sindacale (si arrivò addirittura a contratti di lavoro con aumenti inversamente proporzionali, cioè maggiori per chi aveva i salari più bassi e viceversa); e molte anche a livello istituzionale: Statuto dei Lavoratori, diritto di famiglia, divorzio, diritto all’aborto ecc. Ma la società libera, democratica ed egualitaria che auspicavamo, rimase un obiettivo di lungo periodo prima, e poi divenne solo un bel sogno. E d’altra parte alcuni dei principi che combattevamo – individualismo, carrierismo, leaderismo – ben presto corruppero le (peraltro piccole) organizzazioni politiche cui avevamo dato vita.

A questo punto alcuni pensarono che la via d’uscita, o meglio, la scorciatoia, potesse essere la violenza. Naturalmente non lo fu. E sinceramente – lo dico in consapevole e spero proficuo disaccordo con altri che qui scrivono – le vicende di costoro poco mi interessano.

Penso che il nodo vero sia capire a fondo le ragioni del nostro complessivo fallimento. Per cui oggi una famiglia indigente senza casa non suscita un movimento che chiede più alloggi popolari, ma uno che vuole buttare fuori dagli alloggi esistenti chi ha la pelle più scura.

Come siamo arrivati a questo? E quanto dei nostri ideali di allora può avere ancora senso, a iniziare dai giovani di oggi?