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QT n. 3, marzo 2018 Cover story

Il ‘68 italiano, uno e trino

Gaspare Nevola

Il 68. Non solo un numero. E non solo un anno. È il nome di un’intera epoca. Un nome che, a torto o a ragione, ha finito per identificare una generazione di donne e di uomini (o una buona parte di essa) allora più o meno ventenni.

Il ‘68 compie ora 50 anni. Ma quanti ne dimostra? Dipende… Dipende dal volto di chi lo riflette. Cercare di rispondere a questa domanda sarebbe un bel modo di affrontare il tema, e varrebbe la pena di farlo durante quest’anno commemorativo.

In Italia, in particolare, tra la metà degli anni ‘60 e gli anni ‘70 cresce sulla scena pubblica la prima generazione che non ha vissuto direttamente le esperienze fondative della Repubblica né la guerra né, tanto meno, il ventennio fascista. L’impatto politico-culturale di questo passaggio generazionale, sociale e demografico è dirompente: investe la società italiana in ogni suo aspetto. Mette sotto tensione il sistema politico e le linee di divisione ideologiche del Paese, quelle che dal secondo dopoguerra avevano strutturato la democrazia. Ma mette a soqquadro anche la scala di valori della società italiana, i suoi stili di vita, linguaggi e modelli di comportamento.

Su questo periodo, storiografia, politologia e sociologia non hanno ancora prodotto letture del tutto stabili o “raffreddate”: come se passioni, vissuti ed esperienze dell’epoca fossero rimasti tenacemente troppo vicini per essere ritratti con sufficiente distacco. Condivisa è, tuttavia, la data del 1968 come contrassegno simbolico di quell’epoca – al di là dei contrastanti e persino opposti giudizi sul suo significato. In Italia, il ‘68 è stato davvero “un lungo ‘68”.

La concezione di “un lungo ‘68 in Italia”, e la messa a fuoco della sua articolazione e periodizzazione interna, può aiutare a comprendere perché le predominanti correnti interpretative non solo faticano a dialogare o a incontrarsi, ma risultano poco convincenti nelle loro letture: non facilitano la comprensione dell’intricato, mutevole e lungo ‘68 italiano. Schematizzando un po’, distinguo due correnti principali.

Una prima corrente tende a demitizzare e a squalificare il ‘68, vede in esso sbandate ideologiche, gruppettismo settario e violenza omicida, secondo una linea di continuità tra “contestazione studentesca” e “anni di piombo”; una seconda corrente identifica nel ‘68 un movimento solare, gioioso e liberatorio, che ha cambiato una società imbalsamata e opprimente, e marca una netta linea di cesura tra protesta giovanile e terrorismo armato.

La prima corrente vede un unico “lunghissimo ‘68”, che dal 1966 arriva fino agli anni ‘80; la seconda, un “brevissimo ‘68”, che si dissolve prima degli anni ‘70. Lo dico, anche qui, con un certo schematismo: entrambe le correnti hanno ragione, in parte; ma entrambe hanno soprattutto torto. Il ‘68 italiano è stato “uno e trino”. Il che significa che è sbagliato sottovalutare le sue differenziazioni e discontinuità (come fa la prima corrente); ma anche che è sbagliato sottacere quella che definirei la “strana fase di congiunzione” tra “un primo ‘68”, quello della contestazione studentesca, e “un terzo ‘68”, quello della violenza aperta. Fuori da ogni equivoco, gli “anni di piombo” non sono il ‘68 del movimento studentesco, qualunque giudizio di questo si voglia dare. Ma, ancora fuori da equivoci, nel terrorismo degli anni ‘70-’80, si annida un’eredità, per quanto sfigurata, del “‘68-anni ‘60”. È per questo che c’è da essere cauti nel caratterizzare il “lungo ‘68” italiano: si tratta di un’epoca complessa e sfaccettata, che sfuma e ridisegna i suoi connotati nel corso degli anni. Un’epoca che non può essere scolpita in modo unilaterale o a colpi di martello. Meglio lavorare di scalpellino e concentrarsi sulle curvature delle forme. Insomma, dobbiamo prendere le distanze tanto dai più aspri o disillusi critici di “ogni ‘68” quanto dai più sofisticati o delusi difensori ad oltranza di un “‘68 autentico”: da loro arrivano ricostruzioni di una “strana stagione” che oscurano molto di più di quanto illuminino.

Discutere e cercare di riappropriarsi storicamente del “lungo ‘68” italiano, ma anche tentare di rimuovere la rimozione di questa storia e della sua memoria pubblica, è compito anzitutto delle generazioni post-sessantottine: tanto nell’analisi e nei giudizi storici, quanto per la comprensione della sua eredità dentro il mondo di oggi. Muoversi in questa direzione sollecita a tenere lo sguardo aperto su tutto “il lungo ‘68”, ma anche ad articolare e differenziare al suo interno questo “lungo ‘68”.

Dal mio punto di vista vedo tre ‘68 nel “lungo ‘68”, secondo una periodizzazione di questo tipo:

1) dal 1966 al 1968/1969, la fase espressiva e più studentesca che inizia con le occupazioni delle università e che comincia a calare il suo sipario con gli scontri di Valle Giulia – è “il ‘68 primavera-estate”;

2) dal 1969 al 1971, la fase di progressiva ma veloce scomposizione e ricomposizione del pluriverso movimentistico del ‘68, caratterizzata da un suo disfacimento e rifacimento sia sul piano politico-ideologico che su quello della prassi, da cui derivano il suo incontro con l’aspra conflittualità nelle fabbriche dell’”autunno caldo”, il dissolvimento del movimento studentesco, il suo assorbimento nella lotta di classe, nell’operaismo, nella “nuova sinistra” – è “il ‘68 autunno”;

3) dal 1972 al 1978, la fase caratterizzata dalla sostanziale uscita di scena della variegata protesta studentesca e dal protagonismo ideologico e di azione della lotta armata votata a colpire “il cuore dello Stato”: il punto di svolta simbolico ma anche ideologico è il convegno di Lotta Continua nell’aprile del 1972, quando, anche sullo sfondo della bomba e dei morti di piazza Fontana, Lotta Continua rivendica e legittima il ricorso alla “violenza rivoluzionaria” contro la “violenza dello Stato” (rivedrà questa sua posizione solo a partire dal 1978, in coincidenza con il “caso Moro”) – è “il ‘68 inverno”.

È, in particolare, la seconda fase quella che resta tuttora da approfondire e chiarire, quella dai contorni più sfumati e sfuggenti. È la fase che separa il primo dal terzo ‘68, ma anche la fase che li raccorda. I trapassi dal primo al terzo ‘68, che cosa sia trapassato dall’uno all’altro, come e perché siano potuti consumarsi simili trapassi: queste le domande. Sono questi trapassi che dobbiamo ancora capire bene. Trapassi che ci sono stati. In questa fase intermedia del lungo ‘68 italiano si celano forse le sue ambiguità. Di certo è questa la fase che mi induce a sottolineare la debolezza delle “lezioni” del ‘68 offerte tanto dalla corrente “cattivista” quanto da quella “buonista”. E, infine, a questa fase intermedia si sposa, tragicamente bene, il verso finale di una canzone di John Lennon, proprio di quel periodo: “The dream is over”.

Gli “anni di piombo” non sono il “maggio francese” né il Rostagno di Trento. Ma sembra che una specie di sottile e misterioso filo tra gli uni e gli altri sia, dolorosamente, da portare alla luce. Per chiarirci tra di noi, oggi. E per riordinare le nostre idee e le nostre coscienze, affinché si possa ritornare a riflettere, oggi, sul “Si può! È possibile cambiare”. Da qualche parte forse si possono ricucire idee e valori un po’ diversi da quelli dominanti nel nostro tempo: un tempo dove pure troviamo tracce, ora gradite ora sgradite, del ‘68 e del “lungo ‘68” italiano. Solo così potremmo re-imparare a distinguere il grano dal loglio.

Pensiamo al patrimonio politico-culturale, alla carica ideale, ai valori di giustizia e di emancipazione, che, nonostante tutto, nel ‘68 c’erano o che almeno un certo ‘68 aveva cercato a suo modo di rilanciare: gli slanci di innovazione politica, culturale, sociale, nei rapporti tra uomo e donna, nei linguaggi espressivi; l’importanza della soggettività e della generosità, l’impegno collettivo e civico, l’interesse per la politica; l’anti-autoritarismo e la cultura dei diritti contrapposta a quella dei privilegi e dei favoritismi; la capacità di “pensare alternative”, la cultura critica e il senso critico; l’idea che solo tentando e ritentando l’impossibile si può qualche volta realizzare il possibile (un’idea espressa un secolo fa da un intellettuale in fondo moderato e conservatore quale Max Weber).

Questo patrimonio valoriale non è certo l’unica eredità del ‘68 italiano. Ma anch’esso è stato sua parte costitutiva, sebbene intriso di ingenuità, ambivalenze, ipocrisie, unilateralismi quanto si vuole. Ma questo patrimonio valoriale c’era. E ha prefigurato conquiste emancipative di cui ci siamo poi nutriti, e pure tendenze di cui ci sarebbe da pentirsi e che a loro modo connotano il nostro disincantato mondo popolato di generazioni “civico-adattive”.

È un patrimonio che meriterebbe di essere riesplorato, e ripensato criticamente. Una buona parte di questo patrimonio, specie quella che spingeva la generazione del ‘68 agli slanci di un “idealismo attivo”, è poi deperita tra la fine degli anni ‘70 e gli anni ‘80, sfociando in frustrazioni, senso di fallimento o cinismo, e in qualche lacerante inquietudine interiore. Una buona parte di questo patrimonio del ‘68 è poi tramontata nella, anche comprensibile, reazione collettiva agli anni plumbei e tragici, quando pallottole terroristiche, oscure bombe e paure svuotano le piazze e ingessano la sfera pubblica, fino a segnare il trionfo del riflusso nel “privatismo” e del “pensiero unico”.

Per cogliere il perché di tutto questo, e anche il “dove siamo ora”, guardiamo al “lungo ‘68” italiano e, con attenzione e cuore libero, alla sua fase di mezzo: quella tra la stagione dell’”immaginazione al potere” e la stagione degli “anni di piombo”, quella fase di mezzo tra lo spartito della “teoria critica della società” e dell’”immaginazione sociologica” e lo spartito delle bande armate e dello stragismo. Solo così, forse, riacciufferemo il bambino gettato insieme all’acqua sporca. Forse. Di questo dovremmo occuparci. E non solo in questo 50° anniversario.