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QT n. 9, settembre 2018 Cover story

L’ennesima delusione

Il popolo del centro-sinistra si mobilita per la novità Paolo Ghezzi. Ma le burocrazie bloccano tutto. Motivazioni e cronaca di un suicidio politico.

L’atrio del Muse si è riempito tutto

Era da tempo che la politica, e in particolare il centrosinistra, non aveva una tale capacità di mobilitazione. Ma quando l’atrio del Muse si è riempito tutto, e più su le balconate ai vari piani, e poi ancora la passerella sospesa, ci si chiedeva quando si era vista così tanta gente: con Veltroni, Renzi... anche con Berlusconi, certo... ma non vale; allora con Grisenti, che portava bus pieni di gente dalle valli... Hai voglia, quella era la magnadora... Insomma, che un outsider come Paolo Ghezzi, un’associazione politica talmente nuova da non avere nome, riuscissero a portare alla prima uscita 500 persone, era una novità vera.

Poi lo svolgersi della kermesse al Muse e lo stesso Paolo Ghezzi convinsero alcuni, entusiasmarono altri, lasciarono scettici gli scettici; ma per alcuni giorni cambiarono il panorama del centro-sinistra trentino. Che accolse i “ghezziani” al mitico tavolo della coalizione.

E lì successe il patatrac: al momento decisivo, dopo mesi e mesi di melina, Ghezzi entrò in conclave come candidato presidente per un nuovo Trentino, ma uscì incoronato Giorgio Tonini, candidato non-presidente del vecchio. Come mai?

Per capire, dobbiamo riavvolgere il nastro. Il problema vero del centro-sinistra è che ha governato per 20 anni. Vent’anni ricchi, gonfi di soldi: che non sono stati tutti investiti al meglio. Anzi, e il paragone con Bolzano è umiliante: in 20 anni l’Alto Adige ci ha superati e stracciati: lì si è lavorato in un’ottica di sistema, qui in una di clientela. Il sistema Svp si è rivelato decisamente più efficace del clientelismo doroteo rivisitato da Dellai e, ancora in peggio, da Rossi. La crisi prima, la consapevolezza che i soldi facili erano finiti, presentavano il conto: il 4 marzo il centro-sinistra autonomista franava.

A questo punto si imponeva una riflessione: dove abbiamo sbagliato? E invece neanche per sogno.

Paolo Ghezzi

Il presidente Rossi, maggior responsabile, ancora una volta dimostrava i suoi limiti: nel timore che venisse messa in discussione la sua leadership (cosa peraltro logica e giusta) negava la realtà: la rovinosa sconfitta riguardava il livello nazionale, non quello locale e alle provinciali il Patt e la coalizione avrebbero retto. Un’interpretazione penosa, che convinceva poco il suo partito, e niente gli alleati. Che però non sapevano reagire. Per un semplice motivo: come più volte abbiamo visto, sono ormai associazioni di persone dedite, attraverso la politica, alla propria personale promozione sociale. Non chiedetegli quindi di analizzare governo e società, leggi e bisogni, sono temi su cui scribacchiano ogni tanto, sottofirmando articoletti che gli scrivono i ghost writer. E pertanto, di fronte a una solenne bocciatura del loro governo, non analizzano gli errori fatti, ma si industriano per trovare un percorso di salvataggio della propria carriera.

Ecco quindi il fiorire di discorsi caratterizzati dal leitmotiv “La Giunta Rossi ha fatto bene”, dove il “far bene” è l’espediente lessicale del politichese per esprimere un giudizio positivo senza azzardarsi a entrare nel merito. E il giudizio positivo è un obbligo: per evitare che, con il presidente, siano messi in discussione gli assessori e i consiglieri, che sempre tutto hanno approvato, come pure i tanti che dal governo hanno avuto posti e incarichi, presidenze e consulenze. E costoro costituiscono il ceto dirigente dei partiti.

È questo, non le “litigiosità interne” stigmatizzate dalla stampa, che spiega le non-reazioni dei partiti alleati. L’Upt, tramortito da una batosta in cui aveva perso il 90% dei voti e quindi a rischio estinzione, ingabbiato dall’ingombrante presenza di Dellai, despota decaduto e detestato, vagolava senza linea precisa.

Il Pd, incapace di mettere tutto in discussione, si affidava a un nuovo segretario, Giuliano Muzio vicino all’assessore Alessandro Olivi, che dopo aver esordito con la richiesta di “discontinuità”, diventava invece il pasdaran di Rossi dentro il partito. Partito paralizzato, alla patetica e poco convinta ricerca di un “nome nuovo” da contrapporre a Rossi senza peraltro mai spiegare cosa di Rossi non andava, e che ormai confidava solo in un’improbabile buona stella: tutti vedevano il precipizio verso cui si stava andando, ma ognuno sperava, nella rovina, di salvarsi singolarmente.

La novità

È stato in questo quadro che è venuta, dall’esterno del Pd, la novità: la candidatura di Ghezzi, i 500 del Muse. Era stata Primavera Trentina, la nuova formazione di Renzo De Stefani e del nostro Piergiorgio Cattani (vedi “Politica: se son rose fioriranno” su QT del maggio scorso) che aggregando Verdi, Liberi e Uguali e altre forze della sinistra, aveva lanciato la candidatura del giornalista e scrittore Paolo Ghezzi, già direttore de L’Adige. Un cattolico democratico, direttore della casa editrice “Il Margine”, un moderato di sinistra, un osservatore della politica ma fuori dai partiti.

La sua candidatura, in obiettiva anche se non conclamata discontinuità con Rossi, riapriva i giochi. L’incontro del Muse veniva gestito in quest’ottica: andare oltre il centro-sinistra di questi anni, da cui si prendevano le distanze ma solo implicitamente, sottolineandone i valori comuni (innovazione, inclusione), rifuggendo la polemica, e limitandosi a pochi cenni (il paragone impietoso con Bolzano) sui limiti di 20 anni di governo. Una discontinuità quindi, ma non una rottura: soprattutto perché con Pd, Upt, e anche Patt, interessava non solo intercettare i voti attuali e i tanti perduti, ma anche un accordo di vertice.

E così i “ghezziani”, come venivano ribattezzati dalla stampa, o Futura 2018, come si erano chiamati loro, entravano al tavolo delle trattative del centro-sinistra. Il Pd, posto di fronte all’alternativa Rossi o Ghezzi, sceglieva, per soli tre voti, Ghezzi.

Ma non era finita. E vale la pena raccontare come sono andate poi le cose: rappresenta uno spaccato impietoso della totale inadeguatezza degli attuali organismi e personaggi politici, incapaci non solo di avere progettualità politica, ma nemmeno di gestirsi i reciproci rapporti.

Dunque, il Pd, dopo aver a malincuore rinunciato a Rossi (la cui riconferma, ricordiamolo, avrebbe comportato la riconferma dei consiglieri-assessori uscenti), si inventava una “nuova” candidatura, Giorgio Tonini. Candidatura, a nostro avviso, del tutto strampalata. Intendiamoci, Tonini è una persona di valore, cordiale, esperto, intelligente, lucido; ci è pure amico (in momenti di difficoltà ha anche sostenuto QT); e sicuramente sarebbe un presidente migliore di Rossi e – prevediamo – di Fugatti. Ma anche rappresenta, incarna, il vecchio: non solo perché ha fatto al Senato ben quattro legislature, ma perché ha sempre finito con il sostenere il potere di turno, Dellai, Rossi, Renzi.

Sia chiaro, non è un cortigiano; è realista, molto realista, ritiene la realtà immodificabile, e pur con lucidità, però teorizza come adeguarsi ad essa, e si adegua. Insomma, è intimamente un conservatore. Non creerebbe grandi danni, ma nel Trentino del 2018 è questo il presidente di cui c’è bisogno? Noi pensiamo di no. E così, soprattutto, la pensa l’elettorato, che chiede a gran voce il rinnovamento. Propinargli Tonini, da parte di partiti già sfiduciati, è semplicemente suicida.

Carlo Daldoss

Ma il Pd – soprattutto nelle vesti del suo segretario Muzio, sempre più scialbo ma sempre più votato alla conservazione dell’esistente –alla candidatura Ghezzi, già votata, affiancava Tonini. Veniva affiancata anche quella di Carlo Daldoss, leader – sembrava – dei civici, nel tentativo di allargare la coalizione al movimento dei sindaci.

Lo sfiancante dibattito

Giorgio Tonini

Si giungeva così, con queste tre candidature, al “tavolo” in cui si doveva decidere. Già la composizione del tavolo era strampalata: 3 rappresentanti del Pd, 3 dell’Upt, 2 dei Verdi (forse a rappresentare una parte del movimento di Ghezzi), 2 “ghezziani” puri, 2 socialisti (a rappresentare chi?). Era evidente la generosità del Pd, del tutto sottorappresentato, in favore di entità in decomposizione oppure non esistenti. Comunque, questa era la situazione.

Durante una prima sessione di 16 (sedici) ore e una seconda di 11 (undici), appurato nel frattempo che Daldoss, duramente sconfessato dai civici, ormai non rappresentava più nessuno, si giungeva a una votazione. Si doveva votare il candidato preferito, più un secondo come opzione di riserva. Daldoss otteneva 4 prime scelte (dall’Upt e da un socialista) e 1 seconda; Tonini 2 prime scelte (Muzio e un socialista) e 7 seconde; Ghezzi 6 prime scelte (2 dal Pd e 4 dai ghezziani) e 1 seconda.

Non si era stabilito come conteggiare la differenza tra prima e seconda scelta, (una ponderazione plausibile sarebbe stata, per esempio, valutare due punti ogni prima scelta e un punto ogni seconda): ma i numeri comunque erano tutti per Ghezzi (e per di più chi non aveva votato per lui erano i socialisti, che non avrebbero dovuto contare molto; e l’Upt, che peraltro aveva iniziato la riunione sostenendo proprio Ghezzi). Si decideva invece, con ragionamenti contorti, di non considerare le differenze tra prima e seconda scelta e di incoronare Tonini. Probabilmente più che la logica ha trionfato la stanchezza: scegliamo un nome purchessia, basta che sia finita. Oppure ha vinto l’istinto di conservazione di consunti marpioni della politica: naturalmente portati a preferire il vecchio al nuovo.

Sta di fatto che, dopo mesi di melina, è stata effettuata la scelta più legata alla nomenklatura, rifiutando quella che la società, i militanti, avevano con entusiasmo proposto.

Giorgio Tonini peraltro, appena nominato, faceva dichiarazioni appropriate, e cercava di ricucire con tutti. Ma Rossi e il Patt chiudevano la saracinesca; la sinistra di Liberi e Uguali, sdegnata, si defilava; i civici, mandato in pensione Daldoss, si sfarinavano; la rintronata Upt entrata in conclave per sostenere la novità Ghezzi, poi rifluita sul debole Daldoss, e infine trovatasi a sostenere un uomo simbolo del Pd, versa in gravissime difficoltà.

Un disastro insomma. Che dimostra tutte le inadeguatezze delle nomenklature nella crisi attuale. Ricordiamo come, all’inizio del percorso cioè in primavera, si fossero rifiutate le primarie, perché “non c’è tempo”, secondo la motivazione ufficiale; perché se le cose le concordiamo noi arriviamo a soluzioni più logiche, secondo la motivazione vera. Si è visto il risultato.

A questo ha portato la degenerazione della politica: passata da progettazione della società a promozione di carriere personali, e poi incapace anche di gestire le conseguenti ambizioni.

Occorrerebbe una tabula rasa.