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Rivedersi dopo anni

Un progetto, a Milano, per orientare giovani e adulti nel momento del ricongiungimento familiare, fonte di gioia, ma anche di crisi. Da “La Città”, mensile di Forlì.

Anna Oppizzi (A cura di Joan Haim)

La cooperativa Comin è nata nel 1975 con l’obiettivo di realizzare degli interventi a sostegno delle famiglie dei ragazzi che attraversano dei momenti di fragilità. Negli anni abbiamo creato delle comunità educative e familiari. L’idea è quella di mettere in relazione famiglie con più risorse con altre che attraversano momenti di fragilità, come può essere appunto un ricongiungimento familiare.

L’esperienza del ricongiungimento familiare è un momento ricco e bello, e tuttavia mette la famiglia -sia i ragazzi che i genitori- in una situazione di crisi.

Parliamo di donne, spesso sole, che arrivano col desiderio di costruirsi una vita migliore, di sostenere economicamente la famiglia rimasta al paese d’origine, ma a volte anche in seguito a crisi familiari, come la rottura di un matrimonio.

Una volta arrivate qui, concentrano la loro vita essenzialmente sulla ricerca di un lavoro, spesso vivendo in situazioni faticose e spersonalizzanti: lavorano anche 10-12 ore al giorno, talvolta all’inizio alloggiano in stanze condivise con altre, perché il loro scopo è quello di raccogliere soldi da mandare ai figli e alla famiglia allargata. Un po’ si annullano come persone, non creano legami, se non con qualche realtà appartenente alla loro cultura, come chiese o associazioni.

Questi sacrifici sono compensati dalle aspettative sui figli che rimangono là. Ovviamente l’aspettativa più grande è portarli qua, un desiderio non facile da realizzare. Negli ultimi anni si sono accelerati i tempi, ma fino a 5-6 anni fa spesso le pratiche si bloccavano: iniziavi a fare le carte per portare qui un bambino di 5 o 6 anni e, dopo anni di attesa, ti arrivava un adolescente; questo generava altri problemi perché nella memoria del genitore c’era tutt’altra immagine.

Il legame tipico è quello che si stabilisce via telefono o via Skype, che però è un rapporto in cui i genitori stessi ammettono di non raccontare le proprie preoccupazioni e fatiche e di descrivere la loro vita in Italia in una maniera quasi romanzata.

Dall’altra parte, anche i figli creano una propria narrazione, secondo cui i genitori vivono in un posto idilliaco e guadagnano un sacco di soldi. I genitori tendono a nascondere che lavoro fanno: ci è capitato di ragazzi che, arrivati qui, hanno scoperto che magari le madri facevano le pulizie o erano delle badanti e per loro è stato uno shock. Il fatto che i genitori fossero al servizio di famiglie italiane li ha messi in crisi, anche perché le rimesse che ricevevano li aveva abituati a una vita relativamente agiata.

Chi c’è passato invita gli altri genitori a non nascondere ai figli cosa fanno realmente, a spiegare che lo stile di vita, una volta in Italia, sarà diverso da quello a cui erano abituati.

Ad ogni modo, il legame tra genitori e figli si svolge anzitutto attraverso il telefono, e poi i viaggi, ma quest’ultima possibilità dipende dalle disponibilità economiche e dalle distanze. Ci sono genitori che possono far visita ai figli una volta all’anno, magari per un mese. Questo però non impedisce che si tenga in piedi una narrazione falsa: nell’immaginario, gli immigrati che tornano al loro paese hanno la valigia piena di regali, non solo per la famiglia ma per tutti gli abitanti del quartiere e quindi devono sostenere un determinato ruolo.

Questi ragazzi in genere venivano cresciuti dai nonni, spesso dal genitore del marito, con cui magari la madre non ha più alcun rapporto. Così, quando i ragazzi arrivano, genitori e figli si percepiscono come estranei. Dicono proprio: “Non ci conosciamo”, si trovano davanti una persona di cui a malapena ricordano il viso.

Questi genitori vogliono portare qui i figli per offrire loro un futuro migliore anche dal punto di vista degli studi scolastici, di cui però non sanno nulla: solitamente non conoscono il sistema italiano e non costruiscono prima dei ponti. Proprio per questo abbiamo messo assieme gruppi di genitori che non avevano ancora ricongiunto i figli e altre famiglie che invece avevano già fatto questa esperienza.

Il modello di lavoro di Cassiopea funziona sull’idea del mutuo aiuto o auto aiuto, per cui erano le stesse famiglie ricongiunte a suggerire alle altre di far fare ai figli dei corsi di italiano prima di partire o di iniziare a informarsi sulle nostre scuole, anche per capire quale fosse il momento migliore per arrivare. A volte, i periodi di vacanza previsti nei loro paesi non coincidono con i nostri, per cui succede che arrivano a metà dell’anno scolastico, con la impossibilità di essere inseriti in una scuola.

Un contratto di fiducia

Abbiamo riscontrato che la fascia d’età più delicata è quella dai 14 ai 18 anni. A volte il ragazzo, se aveva finito il ciclo di studi, si stava già creando un proprio progetto di vita che invece, arrivando qua, si scardina.

Lavorando con le famiglie, mettiamo a confronto il progetto di vita dei genitori che spesso è ben definito (lavorare e tornare al paese di origine) col progetto migratorio dei ragazzi: “Lascio amici e scuola e arrivo qui dove trovo, sì, mio padre e mia madre, però il resto è tutto da ricostruire!”.

Quando questi ragazzi arrivano, sono totalmente spaesati. Quindi noi cerchiamo di aiutarli a creare sul territorio i primi punti di riferimento, a partire dal luogo dove abitano, e le prime reti di sostegno. La sensazione prevalente è infatti quella della solitudine, dell’isolamento. Li incoraggiamo a uscire di casa, a non investire esclusivamente sul legame, mantenuto attraverso i social, col paese che hanno lasciato, perché questo atteggiamento poi crea a cascata dispersione scolastica e ingresso in gruppi e bande.

Stipuliamo con loro un contratto di fiducia, a partire da obiettivi concreti, come il corso d’italiano: si tratta di cercare in zona la possibilità di frequentare corsi che riempiano i primi momenti di spaesamento. Due o tre pomeriggi alla settimana possono venire da noi. In questa fase cerchiamo di capire assieme quali sono le passioni e gli interessi che avevano in patria, e come provare a ricostituirli qua. Alcuni praticavano uno sport, suonavano la chitarra, cantavano in un coro, ecc; e il non poter portare avanti le loro passioni è un altro elemento di sofferenza.

All’inizio le famiglie di cui ci occupavamo erano prevalentemente sudamericane; da diversi anni ci sono anche ragazzi dello Sri Lanka e filippini; quest’anno abbiamo intercettato tre o quattro cinesi... Il problema è che queste famiglie spesso non riescono a capire bene chi siamo, in genere fanno riferimento alla scuola, che poi li manda da noi.

Ogni situazione è veramente a sé, si fa un processo di tutoring su tutti i fronti: sul versante scolastico, sul piano del sapersi muovere nel territorio, sulla socializzazione; si organizzano uscite nel quartiere, li si accompagna allo sport, gli si fa conoscere l’Italia: quest’anno li abbiamo portati a Venezia e a fare dei trekking in Piemonte. Il loro entusiasmo ci ha convinto a ripetere l’esperienza.

Per due giorni alla settimana i ragazzi pranzano da noi; il pasto è un’azione educativa introdotta anche su richiesta delle famiglie. I genitori non sono a casa quando i figli tornano da scuola, per cui questi devono organizzarsi da soli. E quello rischia di essere un momento di solitudine, di sfiducia che può innescare la richiesta: “Fammi tornare immediatamente nel mio paese”. Abbiamo allora provato ad inserire questo tassello, sia per coprire una necessità concreta dei genitori, sia per andare incontro a un bisogno emotivo dei ragazzi

Il pasto è così diventato un momento ludico: i ragazzi cucinano insieme a noi e poi c’è uno spazio di “chiacchiera”, in cui si parla di quanto avvenuto a scuola; inoltre, nell’alternarsi in cucina, i ragazzi condividono le ricette e gli ingredienti dei loro piatti tradizionali. Sappiamo quanto la cucina sia centrale per ogni cultura; non è un’idea originale, però funziona. Secondo me è anche una metafora educativa, perché tu assaggi qualcosa che non conosci e in qualche modo abbatti un po’ le tue barriere. Quest’anno abbiamo due ragazze musulmane, ma ci sono state anche le culture dell’est, Bielorussia, Ucraina, Romania...

L’incontro con le famiglie avviene anzitutto col passaparola; il secondo canale è la scuola. Abbiamo costruito una rete di scuole, per cui gli insegnanti, dopo i primi mesi di osservazione, individuano le situazioni di maggiore fragilità e allora facciamo dei colloqui per capire se è il caso di attivare il progetto. Un altro punto di riferimento sono le parrocchie e poi le varie associazioni.

Quest’anno abbiamo intercettato 45 famiglie e una trentina di ragazzi.

Questi ragazzi hanno anche il desiderio di entrare in relazione con altri, di fare delle cose. Così abbiamo messo in piedi dei gruppi di cittadinanza attiva, che per i ragazzi significa partecipare alla progettazione e animazione di attività nel quartiere. Per esempio, lo scorso anno, per preparare la festa di quartiere, hanno seguito la parte organizzativa, che vuol dire chiedere dei permessi, scegliere gli spazi, chiamare i tecnici, insomma sono stati protagonisti di un evento.

Un’altra cosa che fanno è organizzare pranzi di auto-finanziamento per sostenere le attività in cui vogliono impegnarsi. Esiste anche un gruppo di mutuo auto-aiuto di genitori aperto alle famiglie del quartiere. Noi incoraggiamo ogni occasione in cui loro possano esprimersi non solo come fruitori, ma come soggetti attivi.

I ragazzi che arrivano già maggiorenni o lo diventano appena arrivati non possono essere inseriti nei progetti scolastici. La fascia tra i 19 ai 23 anni è quella maggiormente a rischio. Già è una fase difficile per i ragazzi italiani, figuriamoci per questi che non risultano inseribili da nessuna parte, se non in qualche corso del Comune; ma le risorse sono poche e le liste di attesa lunghissime. Come non bastasse, i corsi professionali spesso richiedono una conoscenza dell’italiano che questi ragazzi non hanno. A volte hanno tante potenzialità, ma bisogna riuscire a farle emergere: la fascia dei diciotto-diciannovenni è quella che ci mette più in difficoltà.

Rivedere il progetto migratorio

Come dicevo, il nostro progetto cerca di lavorare sui “buchi” creatisi dentro il tessuto del rapporto genitori-figli. Queste ferite a volte sono rimarginabili, a volte invece portano a delle decisioni radicali. Tuttavia, anche la decisione di ritornare nel paese d’origine può avvenire in un clima di aperta conflittualità o può essere maturata insieme mantenendo un legame; cioè ci si è provato, si è visto che non funziona, e quindi ci si separa di nuovo; si tratta sempre di decisioni fonti di sofferenza, più per i genitori che per i figli, ma dove si conserva comunque un rapporto.

Noi offriamo la possibilità di far dei colloqui di mediazione dove, insieme, proviamo a rileggere il progetto migratorio: come sta andando, quali sono i passaggi successivi, che cosa non sta funzionando e cosa è opportuno fare. Nelle situazioni più critiche, dove emergono sofferenze psichiche più importanti, ci rivolgiamo a servizi con competenze specifiche.

Spesso gli adolescenti, una volta arrivati qui, si trovano a riattraversare la fase dell’infanzia: da una parte, il genitore si aspetta di riavere il suo “bambino”; dall’altra, loro si aspettano un accudimento e un’affettività che spesso sono difficili da mettere in pratica, perché manca l’abitudine a quella fisicità che si crea nella condivisione, nella quotidianità; ci sono genitori che fanno fatica ad abbracciare il figlio e figli che invece regrediscono fino a voler dormire nel letto coi genitori. Noi proviamo a dare dei suggerimenti pratici su come impiegare le ore passate assieme, organizzando momenti di svago, di coccole, ma anche di confronto.

Sia i genitori che i figli hanno talmente desiderato e idealizzato questo rapporto, che poi è difficile confrontarsi con la realtà. A volte è come se i figli volessero un risarcimento. E anche il genitore si aspetta la stessa cosa: “Io ho fatto fatica, per cui tu devi…”. Questo crea una miscela esplosiva. Per non parlare dei legami interrotti. Tanti ragazzi hanno imparato a chiamare la nonna o la zia “mamma”; questo è difficile da accettare per le donne immigrate.

Poi ci sono irrigidimenti davanti al fatto che il ragazzo non riesce immediatamente a scuola. Il genitore pensa: “Adesso che sei arrivato, devi inserirti in fretta”. Ma il processo non è semplice.

Ad ogni modo, quando l’esperienza con noi si conclude, un legame rimane, per cui, se i ragazzi vogliono farsi una chiacchierata, se hanno bisogno di qualcosa, ci possono chiamare: “Sono in un momento un po’ di crisi, voi avete un’idea?”. In questo senso Cassiopea è un progetto “leggero”: i ragazzi passano, traghettano. Poi ci sono le situazioni più faticose, più problematiche che richiedono il coinvolgimento dei servizi sociali. La fiducia nella relazione che abbiamo instaurato, in questi casi, fa sì che il ricorso ai servizi sia più lineare, perché abbiamo spiegato loro come funziona, li abbiamo accompagnati.

* * *

Anna Oppizzi è responsabile del Progetto Cassiopea, promosso dalla cooperativa Comin nel quartiere milanese di via Padova, per accompagnare gli adolescenti nella delicata fase del ricongiungimento familiare.

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