Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca
QT n. 1, gennaio 2020 Monitor: Cinema

“Pinocchio” di Matteo Garrone

Grazie, Garrone

Non so perché “Le avventure di Pinocchio” sia un libro tanto amato, uno dei più venduti al mondo. A me non è mai piaciuto. Da bambino mi angosciava la fragilità e improvvidenza del burattino, talmente ingenuo e tonto da risultare irritante nelle sue disgrazie. Da grande, l’idea della crescita e trasformazione in essere umano, soggetta all’accettazione delle regole del perbenismo borghese ottocentesco, mi facevano incazzare. Insomma non sono mai stato capace di farmi coinvolgere dal puro e semplice lato fiabesco.

Invece è proprio in quell’universo che il film di Garrone sembra volerci portare. Senza sposare nemmeno una delle tante interpretazioni cui il libro si presta, il regista si affida agli sviluppi narrativi e ai personaggi per rendere la pluralità emotiva, culturale e visiva di cui è ricco il testo. Il film è punteggiato di sollecitazioni, punzecchiature, brevi sguardi sulla paternità, l’amicizia, l’educazione, l’ubbidienza, la ricerca di identità, la difficoltà della crescita, l’importanza dell’istruzione. Mescolati ovviamente alla magia, alla casualità, alle metamorfosi del mondo… Ne esce una narrazione senza forzature e troppe finalizzazioni, costruita per giustapposizioni ed accavallamenti. Un film, dunque, rispettoso del libro, che non a caso è stato scritto e pubblicato, almeno nella prima parte, per episodi, senza un quadro d’insieme, ma assemblando sequenze. Ma, come è giusto che sia, la sceneggiatura è anche un tradimento del testo, di cui mancano o sono modificati parti e personaggi e ne sono aggiunti e inventati altri.

In questo riuscito equilibrio di elementi narrativi e caratterizzazione di personaggi, Garrone non prende le parti di nessuno, mettendo in scena umani animaleschi (il Giudice scimmia e l’Assistente lumaca), e animali umanizzati (il Grillo o il Tonno). Pinocchio è il burattino sprovveduto ed emotivo del libro, ma la bambina dai capelli turchini appare più un’affettuosa amichetta, più sorella che mamma o fata; il Gatto e la Volpe due truffaldini per miseria e fame, Lucignolo un amico bambino ribelle piuttosto che un malefico traviatore, Mangiafuoco più tenero e commovibile che spaventoso orco.

Insomma si tratta di una fiaba, dove però Garrone non vuole marcare un messaggio, i fini didattici, i buoni e cattivi manichei. Ma neanche solo la fantasia: vedi la crudezza degli ambienti, il realismo delle condizioni umane e il rimescolamento di alcuni temi, come l’importanza dell’istruzione, di cui sono sottolineate le contraddizioni di ieri e di oggi. Alle buone intenzioni di Geppetto e della Bambina turchina per dare un’istruzione a Pinocchio, il regista contrappone infatti una rappresentazione della scuola come luogo pedagogicamente aberrante per cui, viste le circostanze, marinarla non è poi una scelta così sbagliata.

Se poi c’è una morale, è posizionata in un finale inventato in cui il burattino diventa umano quando si prende cura (e nel mare letteralmente si carica sulle spalle) il padre. Ovvero trova casa, studia e lavora per crescere e per dare compimento alla sua famiglia. Insomma, il burattino in balia degli altri e del mondo, si trasformerà in umano in conseguenza della sua presa di responsabilità. Un finale forse un po’ troppo didascalico, ma che dà compiutezza superando i limiti del perbenismo del libro.

Accuratissima la ricerca e la ricostruzione degli ambienti, le scenografie, i trucchi, i costumi per atmosfere che sono spesso oscure, grevi, vicine al fiabesco mostruoso de “Il racconto dei racconti”. Ma il trattamento dei personaggi, qualche giusto tocco di ironia e la bella colonna sonora rendono il film più lieve e mai angosciante.

Roberto Benigni è molto bravo, preciso e misurato, non straborda mai nella benignaggine e dà al suo Geppetto una profondità affettuosa fatta di umana fragilità paterna.

Forse un film più caratterizzato dell’estetica e dalle atmosfere che dalla dimensione emozionale, ma di certo un’opera che si è rispettosamente appropriata del testo, l’ha trattato con giuste libertà e pone un ulteriore segno dello stile di Garrone.

Povero Pinocchio, appena fatto e buttato nel mondo. Che ne sa lui di bene e male, giusto e sbagliato, importante e no. È solo un burattino e va preso con tutti i suoi limiti e tentativi di superarli. Adesso l’ho capito meglio.

Grazie, Garrone.