Menù
Home
QT
Questotrentino
Mensile di informazione e approfondimento
Utente
Cerca

Dopo il disastro libico: l’opzione militare non è più un tabù?

Fra Trump, Erdogan, Putin, l’Italia affonda e l’Europa si dissolve. Un dibattito fra studiosi sui nuovi scenari internazionali

La Libia, geograficamente nostra dirimpettaia nel Mediterraneo, storicamente a noi legata come colonia dal 1911 e da stretti rapporti non solo commerciali negli ultimi 50 anni, sembra negli ultimi mesi uscita dall’area di influenza italiana. Al nostro posto ci sono Turchia e Russia. Una débacle totale della politica estera anzitutto nostra, ma anche europea. Come è potuto accadere? E quali lezioni, strategiche – oltre il vuoto affaccendarsi del nostro ultimo Ministro degli Esteri, il miserello Luigi Di Maio – dobbiamo trarre? Si può mettere in discussione il rifiuto (il tabù?) dell’opzione militare?

Di questo discutiamo con il prof. Gianni Bonvicini, già direttore e vicepresidente dell’Istituto Affari Internazionali di Roma nonché presidente del nostro Fbk, e con Marco Pertile, professore associato di diritto internazionale della Scuola di Studi internazionali di Giurisprudenza dell’Università di Trento.

Gianni Bonvicini
Marco Pertile

Bonvicini: La situazione in Libia è chiaramente scappata di mano a tutti, a iniziare da chi era intervenuto per scacciare Gheddafi, francesi, inglesi, e in seconda linea italiani e americani. Si è perso completamente il controllo, anche da parte dell’Onu, che aveva individuato in Serraj, garante di un accordo tra alcune tribù, la personalità attorno a cui ricostruire un governo; in realtà ha avuto difficoltà perfino a sbarcare a Tripoli, ha dovuto parcheggiare su una nave al largo del porto. D’altra parte in Cirenaica si era insediato Haftar, un generale di Gheddafi. Di fronte alle crescenti difficoltà di Serraj, l’Onu non ha mai fatto nulla, l’Italia invece si è schierata in maniera convinta - almeno all’inizio - con Serraj, anche perché controllava la parte ovest del paese, dove ci sono i pozzi e gli impianti dell’Eni. Come sempre, la vera politica estera è stata fatta dall’Eni, che si è accordata con le milizie a protezione degli impianti.

Un anno fa poi l’Italia si è inventata una politica di equidistanza tra Haftar e Serraj - realpolitik dice ora Di Maio. Ma figuriamoci, il realismo che va contro i propri interessi è un non senso; di fatto era troppo tardi per inventarsi una politica di equidistanza. Così in aprile Haftar lancia un’offensiva che doveva prendere Tripoli in pochi giorni, e l’Italia, che si è ben guardata dall’appoggiare Serraj mentre Haftar era sostenuto da Russia, Egitto ed Emirati, è rimasta completamente fuori gioco. Così Serraj è stato alla fine sostenuto dalla Turchia, e l’Italia è scomparsa dalla scena libica. Un esempio? La Bbc due giorni prima della conferenza di Berlino ha citato i vari partecipanti, senza mai menzionare l’Italia, ormai irrilevante. Una scomparsa, dopo secoli di rapporti preferenziali, è stato l’esito logico di una linea estera tracciata a casaccio e gestita peggio.

A complicare il quadro (e a spiegare in parte il voltafaccia di Trump, non la nullità italiana) c’era stata tra i sostenitori di Serraj la presenza di gruppi islamisti, compresi i Fratelli musulmani, mentre i gruppi laici, che sul modello di Gheddafi vedevano una Libia laica, sono con Haftar. Il che – fino a un certo punto - spiega la posizione di Trump, partito come sponsor della cabina di regia italiana in aiuto di Serraj, e poi spostatosi su Haftar.

Pertile: Questo è un affresco su cui concordo. Voglio aggiungere qualche dettaglio. Sono molto colpito dall’attuale esito, con la Turchia che ora si affaccia sul Mediterraneo centrale. Ricordiamo che Haftar per vent’anni ha vissuto negli Usa, in Virginia, ed è anche cittadino statunitense, mentre negli anni ‘80 ha frequentato l’accademia militare in Russia e parla il russo fluentemente. D’altra parte Serraj è di origine turca. Forse anche le biografie dei protagonisti contano. Così due nemici storici come Turchia e Russia sono intervenuti su fronti opposti, ma per poi spartirsi questa parte del Mediterraneo, un approdo impensabile solo due anni fa. A stemperare il giudizio sulla politica estera dell’Italia, che faceva forte affidamento sugli Stati Uniti, è da considerare l’imprevedibile politica di Trump, che ha portato a un cambiamento di fronte a sostegno di Haftar, che peraltro si era già visto in un altro scenario con l’improvviso abbandono dei Curdi in Siria. La mia sensazione è che si tratti di scelte istintuali non tanto dettate da eccessi di realismo, ma da considerazioni di politica interna, che stanno portando danni incalcolabili alla reputazione degli Usa, con effetti geopolitici devastanti: se abbandoni i tuoi alleati più efficienti (vedi i Curdi), diventi imprevedibile e inaffidabile anche per gli altri partner.

Nella mappa la zona economica esclusiva (un'area del mare, adiacente le acque territoriali, in cui uno Stato costiero ha diritti sovrani per la gestione delle risorse naturali,) come rivendicata dalla Turchia dopo l’accordo con Serraj.

Vi è inoltre lo scenario energetico: la Turchia non ha risorse naturali, ha necessità energetiche continuamente crescenti. Ora, stipulando un apposito accordo con Serraj - il governo internazionalmente riconosciuto – la Turchia tenta di estendere la sua Zona Economica Esclusiva a scapito della zona marittima di Creta che il nuovo accordo riduce unilateralmente a 6 miglia.

Di qui le proteste veementi della Grecia e il suo appoggio ad Haftar. Sullo sfondo già si può vedere una ricomposizione della rivalità tra Turchia e Russia attraverso uno scambio ai danni degli altri attori: si parla di un riconoscimento russo della Cipro turca in cambio di un riconoscimento turco della Crimea recentemente annessa dalla Russia.

C’è poi un tema di diritto internazionale. L’Italia ha sempre avuto una tendenza a cercare l’avallo delle Nazioni Unite soprattutto nelle questioni riguardanti l’uso della forza. La linea tradizionale è stata diligentemente applicata appoggiando chi (Serraj) è riconosciuto dall’Onu. Altro punto: c’è un embargo sulle armi imposto dal Consiglio di Sicurezza e solennemente ribadito alla recente conferenza di Berlino; solo che ci sono paesi che rispettano gli impegni e altri che violano impunemente le risoluzioni ONU. Qui si apre un dilemma: noi non abbiamo fornito le armi ai libici e siamo scomparsi, Turchia e Russia lo hanno fatto (e hanno anche inviato uomini) e ora sono egemoni. È un fatto desolante constatare che decidere di non fornire armi, anche per non aggravare una guerra civile, porti a una completa marginalizzazione.

Tornare alle armi?

Fayez Mustafa al Serraj
Khalifa Belqasim Haftar

Siamo di fronte a una responsabilità italiana di non aver perseguito una politica adeguata, oppure di chi fornisce le armi pur avendo sottoscritto l’embargo? Oppure questa domanda è secondaria? Nel senso che altro è il cuore del problema: con il ritiro americano, non abbiamo più il fratello grande dietro cui proteggerci e allora dobbiamo realisticamente pensare che l’opzione militare non sia più un tabù?

Bonvicini: Sì, questo è il problema. Ormai i conflitti, per essere affrontati, hanno bisogno di una manifestazione di capacità militare; oggi i problemi non si affrontano con sanzioni e diplomazia, ma con la militarizzazione.

E allora, che fare? Come filosofia siamo molto legati al multilateralismo, all’Onu e all’Ue, muoversi al di fuori di questi contesti ci risulta particolarmente difficile. Non è un caso che l’articolo 11 della Costituzione rifiuti la guerra e anche la cultura del potere militare venga in Italia rifiutata. E le nostre 38 missioni militari con 6.300 soldati nel mondo, sono sempre a supporto di gestioni politiche dei conflitti: fungono da interposizione, protezione, addestrano le truppe locali, ecc. Oggi c’è il timore che questa cultura antimilitarista non sia adeguata. Il caso libico è emblematico, Serraj chiede aiuto militare all’Italia, noi non glielo diamo, lo fa invece la Turchia, che ci soppianta. Abbiamo fatto bene? Di sicuro c’è un deficit di politica estera, che ora si è approfondito, la nostra politica estera è nelle mani di altri attori, e Russia e Turchia sono alle porte. Non è un caso che il nuovo ministro della Difesa Guerini abbia detto che dovremo riflettere su questo, e riflettere sull’uso della opzione militare.

Poi, parliamo della Francia. È un paese arrogante, che in Libia ha senz’altro svolto un ruolo negativo. Però noi non abbiamo fatto nessun vero tentativo di metterci d’accordo con loro, per riuscire ad avere un minimo di politica comune, che avrebbe potuto evitare l’esito attuale, in cui entrambi siamo perdenti. Ed è stata responsabilità di entrambi i governi Conte il non aver fatto questa mossa; e ancora più sbagliato affidare la Farnesina a Luigi Di Maio, di cui sono noti i limiti, l’incompetenza internazionale, e che ci aveva quasi fatto rompere – con la visita ai gilet gialli - i rapporti con la Francia, in una situazione in cui si vivono passaggi molto delicati in Africa, che per noi dovrebbe essere centrale, e in cui la Francia è un attore fondamentale.

Pertile: Propongo questa lettura: l’Europa aveva cercato di introdurre il principio dell’etica nella politica estera. Questo ora sembra svanito, stiamo ormai ragionando tutti in un’ottica di realpolitik, anzi di politica estera ottocentesca, incentrata sulle aree di influenza. Inoltre la lentezza dei meccanismi decisionali in politica estera per come oggi funzionano in Europa (altra cosa è l’America) sembra portarci ad essere svantaggiati rispetto alle autocrazie, che decidono in 20 minuti cosa fare. L’unico luogo in cui potremmo difendere a ampio raggio, con politiche di lungo respiro, i nostri interessi e la nostra visione, sarebbe l’Unione Europea, che però è spesso paralizzata dalla logica del ‘minimo comune denominatore’ degli interessi degli Stati membri, al punto di non esistere di fatto.

Bonvicini: È un discorso molto triste, che si riflette in un’involuzione drammatica, l’indebolimento della democrazia in tanti paesi che pur vi si erano affacciati con entusiasmo, penso ai paesi di Visegrad.

Credo sia finito il tempo in cui si definiva l’Ue una potenza civile, che faceva politica internazionale utilizzando il potere economico. Oggi non più, deve diventare potenza con capacità militari, che devono essere efficaci, non si devono impiegare due mesi per far partire un’operazione Sofia, l’operazione di sicurezza marittima per intercettare le rotte dei trafficanti nel Mediterraneo.

Ora, le pressioni economiche possono avere la loro efficacia: con l’Iran avevano spinto all’accordo sul nucleare, quello poi stracciato da Trump L’Ue in effetti ha aiutato diversi paesi africani in situazioni di crisi politica, ma questo oggi non basta più. Anche perché di fatto la Nato è scomparsa, gli Usa sono lontani e la Turchia si comporta del tutto indipendentemente.

Pertile: Rispetto a questi ragionamenti, voglio fare l’ingenuo. Con la militarizzazione europea temo che ci si possa fare del male. Temo che in questi anni si sia già buttato via un capitale di politica etica, di soft power, di credibilità: vedi la partecipazione di alcuni paesi a varie guerre infondate come quella in Irak, vedi la dilapidazione del capitale di credibilità dell’Occidente sui diritti umani perpetrata ad Abu Graib (il carcere in Irak dove gli occidentali praticavano, anche sadicamente, la tortura, n.d.r.). Vorrei anzitutto che si rifondasse quella capacità dell’Europa di proporre un modello diverso, e solo al suo interno si ricostruisse anche una capacità di difesa; la militarizzazione come strumento prevalente temo non porti a buoni esiti.

Bonvicini: Il quadro è modificato, abbiamo vissuto questa straordinaria esperienza di potenza civile perchè abbiamo delegato la nostra sicurezza agli Usa. Questo oggi non è più credibile, a prescindere da Trump. Teniamo presente che sulla scena internazionale viene rispettato solo chi ha capacità di muoversi analoghe alle tue. Ora, una politica estera europea supportata da una difesa comune sarebbe credibile, e sarebbe un esito molto migliore, per tutti, l’alternativa è la Francia e la Germania che perseguono i propri interessi. In questo contesto la difesa comune risulta imprescindibile”.

Introduciamo un dato: il Pil russo è di poco superiore a quello spagnolo, di molto inferiore a quello italiano. Ma la potenza e presenza internazionale della Russia è infinitamente superiore. È una questione di potenziale militare, di risolutezza nell’usarlo?

Pertile: Noi dobbiamo saper usare meglio le nostre capacità di condizionamento economico. Un’azione coesa di fronte a un paese come la Turchia (che peraltro anni addietro potevamo attrarre nell’area europea) avrebbe grandi effetti. Abbiamo assoluto bisogno di meccanismi istituzionali diversi che permettano di assumere decisioni rapide e comuni a livello europeo.