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Diritti offesi: il “caso Mbobero”

Repubblica Democratica del Congo: 3.000 persone espropriate illegalmente della casa e dei campi dall’ex Presidente Joseph Kabila, che vuole allargare i suoi privati possedimenti. Da “Una Città”, mensile di Forlì.

Ursule Vitali
L’ex presidente della Repubblica Democratica del Congo, Joseph Kabila.

Mbobero è un villaggio che sorge sulle colline che costeggiano il lago Kivu, a circa 12 km da Bukavu, nella Repubblica Democratica del Congo. Fino al 2010, superate le conseguenze delle guerre, la vita di questo villaggio procedeva tranquilla. Le famiglie che vi abitavano coltivavano i campi producendo manioca, fagioli e altri legumi che le nutrivano e permettevano ai giovani di studiare. Questa terra era una concessione appartenente in origine a un proprietario belga, Marcel Michaux. “Essa - afferma Innocent Mbaswa, un anziano testimone dei fatti - era stata suddivisa nel 1973 da Michaux quando lasciò il paese. Per pagare la liquidazione ai suoi lavoratori, diede a ciascuno una parte della concessione. Nel corso degli anni, ognuno di loro vi aveva costruito una casa e aveva anche venduto delle porzioni di terra a persone venute da fuori, che vi avevano a loro volta edificato. Per esempio, mio padre Bitaha aveva ricevuto nove ettari. Tutto era ben delimitato e riconosciuto dal capo locale. La popolazione si stava progressivamente procurando i documenti del catasto; del resto gli acquirenti avevano costruito senza problemi”.

Il 2010 segnò una novità nella vita di Mbobero. L’allora Presidente della Repubblica, Joseph Kabila aveva acquistato a Mbobero il terreno di un certo Mihigo Chokola, che a sua volta l’aveva avuto da Michaux. Con un vicino di tale importanza, molti abitanti sperarono nell’arrivo della corrente, nel miglioramento delle strade. “Fino a quattro anni fa - continua il nostro testimone - il Presidente ha vissuto bene con la gente di Mbobero, i confini erano rispettati”. Poi, la gente ne ha constatato, con stupore, l’allargarsi progressivo. “A gennaio 2016 - continua Mbaswa - ci hanno detto: ‘Cosa fate ancora qui? Perché il Presidente dovrebbe vivere con voi?’. Hanno distrutto delle case e anche un ospedale. Era la prima ondata di demolizioni. La seconda, più vasta, è arrivata all’inizio di febbraio 2018: è questo che ha causato la miseria attuale della popolazione di Mbobero. Kabila è perfino andato oltre la concessione che apparteneva a Michaux, nella palude coltivata di Murhungu e verso il lago Kivu”.

Le demolizioni.

Per procedere alle distruzioni, Mbobero è stata invasa da militari come se si trattasse di un terreno di guerra.

Testimonia la signora Josiane Nankafu: “Abito a Mbobero dal 1996. Sono mamma di nove figli e ho tre nipotini. Vivevamo in due case di legno che mio marito aveva costruito. All’inizio di febbraio abbiamo visto arrivare nel villaggio molti soldati, come se andassero in guerra. Hanno cominciato a demolire le nostre case. L’8 febbraio, quando è toccato alla mia, ero nel campo a seminare i fagioli. Mentre tornavo i miei figli mi sono venuti incontro dicendo: ‘Mamma, hanno distrutto la nostra casa!’. Poliziotti e militari avevano preso pentole, piatti e tutto ciò che di bello c’era all’interno. Abbiamo lasciato il luogo con qualche bagaglio, senza sapere dove andare. Una persona ci ha offerto a casa sua una stanza per me, mio marito e sette figli. Prima, alle cinque e mezza del mattino, andavo nel campo a cogliere foglie di manioca, le mettevo in un sacco e andavo al mercato in città: trovavo così un po’ di farina e di olio, e i nostri figli mangiavano. Adesso non ho più nulla e il padrone di casa comincia a essere stanco di ospitarci”.

Alla vigilia delle demolizioni di febbraio 2018, i giovani di Mbobero organizzarono una resistenza, come spiega uno di loro: “L’8 febbraio, dei poliziotti hanno demolito la casa di un vecchio. La sera, noi giovani, sapendo che avrebbero continuato a distruggere le abitazioni, abbiamo tagliato degli alberi, rovesciando i tronchi sulla strada, per impedire il passaggio delle auto. Il giorno dopo, quando i poliziotti sono tornati, sono dovuti salire a piedi. Eravamo pronti allo scontro, ma ci hanno detto che non erano armati, volevano solo parlare. Ci hanno promesso che il problema era risolto, le nostre case non sarebbero più state abbattute. I saggi del quartiere sono stati chiamati a Bukavu per incontrare il Ministro degli Affari fondiari, venuto dalla capitale. Il Ministro ha domandato loro di ripresentarsi l’indomani con i documenti di proprietà. Al mattino presto i saggi sono tornati in città con i documenti. Ma quella stessa mattina il quartiere era pieno di militari, che distruggevano le case di legno, calpestavano le lamiere…

La gente che era fuori, correva a casa per salvare qualcosa. Gli edifici in mattoni sono stati distrutti i giorni seguenti dai macchinari dell’Ufficio nazionale delle strade, saliti attraverso la strada della residenza del presidente Kabila, perché la nostra restava bloccata. La terra dove abitavamo, l’avevo comprata da Celestin Lufungulo, che l’aveva ricevuta con documento scritto da Michaux: ho il documento del catasto del 1996...”.

Il seguito fu uno sfasciarsi progressivo di tanti diritti. Le donne hanno particolarmente sofferto. “Il 31 gennaio 2016 hanno distrutto le prime case, ma i militari erano nel quartiere fin dal 2010, e avevano cominciato a violentare le nostre figlie e noi mamme - racconta ancora Josiane -. Le piccole somme che guadagnavamo con un po’ di commercio, sono state prese dai militari durante le demolizioni. Che cosa potevamo fare davanti a un fucile? Così siamo rimaste senza niente”.

Racconta Egide: “Oltre ad abbattere la nostra abitazione, hanno preso il nostro campo, da cui ci veniva il cibo e la possibilità di studiare… Ora, il numero dei bambini denutriti è cresciuto, al punto che una volta al mese arriva al Centro sanitario il camion del Programma alimentare mondiale a portare un po’ di cibo per loro e le mamme incinte. Come altri giovani, ho dovuto abbandonare gli studi: ero al primo anno del dottorato in medicina. Per i bambini, alla malnutrizione si aggiungono i traumi psichici per quello di cui sono stati testimoni. I bambini chiedono spesso: ‘Quando torneremo a casa? Quando avremo anche noi una casa?”.

Anche gli uomini sono stati duramente colpiti. Racconta Matthieu Baguma Bameme, portavoce del Comitato: “Certi uomini hanno smesso di parlare, di muoversi... Chi ha un mestiere va in città, ma difficilmente trova occupazione. Altri sono andati lontano a lavorare come pescatori; altri frantumano pietre nelle cave della zona, o cercano oro per un salario di miseria. Altri ancora trascorrono le giornate a giocare al ‘sombi’ oppure si drogano con bevande alcoliche. Così, fra gli uomini vittime delle demolizioni a Mbobero, si registra un aumento di decessi”.

La protesta: “Giustizia. Pace. Lavoro. La popolazione di Mbobero dice no all’esproprio e alla demolizione delle case costruite sulla terra dei suoi antenati. No alla malvagia distruzione di Mbobero”.

Gran parte della popolazione però non si è lasciata andare, ha reagito e ha costituito un Comitato delle vittime di Mbobero. “Le difficoltà sono oltre misura -dice il presidente del Comitato. Le famiglie che ci hanno accolto cominciano a scacciarci. Avevamo pensato di installare un campo di sfollati, ma il confinamento ce l’ha fin qui impedito. Sono state fatte tante manifestazioni, marce fino in città, deposito di memorandum, ma senza esito. Diversi i tentativi di contatto con l’ex-presidente Kabila, mai andati in porto”.

Un piccolo nucleo di abitanti di Mbobero è stato coinvolto, senza che il resto della popolazione fosse d’accordo, in un percorso di soluzione che prevedeva la restituzione di 8 ettari e 80.000 dollari, cioè un ettaro e 10.000 dollari per ogni vecchio proprietario. Una cifra molto al disotto del valore; e poi come dividere un ettaro fra i figli e tutti coloro ai quali erano state vendute delle porzioni di terra e lì avevano costruito? Il Comitato non ha accettato la proposta e ha chiesto l’intervento di un team di geometri neutrali che valutino la reale proprietà della terra e la compensazione per i danni causati: non solo la demolizione delle case, e dell’ospedale, ma anche i morti come il bimbo di due anni soffocato dalle bombe lacrimogene. E come contare le persone morte di dolore, o che si sono lasciate andare per lo sconforto, e i bambini malnutriti?

Alla vigilia del 20 aprile 2018, quando era prevista l’ulteriore demolizione di una cinquantina di case, la gente di Bukavu ha tempestato le autorità di sms, e le case sono rimaste in piedi. Ma la vita, dentro il recinto murato del presidente, è dura: si vuole spingere la gente ad andarsene. Karubandika, un membro del Comitato, è particolarmente preso di mira: “Per entrare e uscire dal recinto passo per un lungo tragitto dove ci sono solo militari. La sera è proibito entrare o uscire dal recinto. Non abbiamo più campi e trovare cibo e acqua è diventato un problema... Intanto, nei campi che ci hanno rubato vengono coltivati pomodori, manioca, fagioli, banane, mais, patate dolci...”.

Un problema è anche seppellire i morti. Dice Matthieu Baguma Bameme: “Le famiglie rimaste nel recinto non possono più seppellire i loro morti presso la loro abitazione. Noi infatti, secondo la tradizione, seppelliamo i defunti nel cortile di casa, non abbiamo cimiteri”.

A marzo 2020, la popolazione ha rivolto a Joseph Kabila un ennesimo invito a presentarsi per un dialogo con le persone. Ma nulla è avvenuto.

Matthieu Baguma parla della goccia che ha fatto traboccare il vaso: “Oggi, là dove hanno demolito le nostre case, hanno cominciato a coltivare fagioli, pomodori, verze, banani; li raccolgono e li portano in città. In un comunicato alla radio, hanno invitato la gente della città e dei paesi vicini a venire a comprarne i prodotti. Abbiamo fame e vediamo che raccolgono nei nostri campi. Il 24 giugno è stato un giorno storico per la popolazione di Mbobero: abbiamo deposto una denuncia in tribunale. Dopo tante sofferenze e negoziati in cui le autorità ci ingannavano, abbiamo visto la necessità di ricorrere alla giustizia. I rappresentanti delle famiglie vittime hanno firmato: più di settecento persone. Se siamo ricorsi alla giustizia non è perché disprezziamo l’on. Joseph Kabila: noi amiamo lui e la sua famiglia, è un uomo molto rispettabile, ci ha governati per diciotto anni, è senatore a vita. Proprio per il rispetto e la fiducia che avevamo in lui, nostro padre, padre della nazione, credevamo che sarebbe tornato sui suoi passi, che avrebbe avuto compassione e così abbiamo sofferto per questi anni. Il 24 giugno è l’inizio. Se possibile, continueremo, perché sappiano che Dio è grande giudice e primo avvocato e crediamo che ascolterà le lacrime di tremila persone”.

* * *

Le testimonianze qui citate si trovano in francese nel sito della Ndsci (Nouvelle dynamique de la société civile): www.ndsci-rdc.com.

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