No-vax, social network e scolarizzazione
Creduloni, impreparati, sprovveduti davanti al monitor: urge una nuova cultura critica
Tutti contro tutti, l’importante è che se ne parli”
Le moderne modalità attraverso le quali si esprime, attualmente, la contrapposizione dialettica sulla quasi totalità dei temi che coinvolgono l’opinione pubblica prevedono generalmente la separazione netta in due fazioni – i “pro” e i “contro”.
“Pro” e “contro” Salvini, “pro” e “contro” il ddl Zan, “pro” e “contro” l’accoglienza dei migranti. E così via.
La matrice comune è la durata della diatriba: breve. Come per le mode, il tema successivo – pur conservando la presenza trasversale del conflitto politico e dei suoi protagonisti – annulla il precedente, facendo in qualche misura tabula rasa e dando un nuovo inizio, quasi verginale, allo scontro.
In questo modo ogni discussione riparte dall’origine e dell’origine preserva l’approccio naïf e la virulenza. Proprio come per il tifo da stadio, per il quale ogni partita fa storia a sé.
Così la portata del dibattito risulta spesso ridimensionata e limitata, fino a diventare in certi casi caricaturale. Si riparte sempre dalle stesse barricate e si mettono in pratica sempre, o quasi, gli stessi schemi.
Non a caso è molto difficile che venga trovata una composizione.
Risulta chiaro, gettando un breve sguardo sulla storia del nostro paese, come un livello di scontro così trogloditico e viscerale sia il terreno ideale per l’infiltrazione dell’estrema destra e dei gruppi neofascisti che infatti, puntualmente, hanno permeato buona parte delle recenti proteste spontaneistiche contro lo Stato: forconi, gilet gialli,… e più di recente i “no-vax”, per lo meno nella loro espressione più estesa a livello nazionale. Non credo sia necessario ricordare qui cos’è successo il 9 ottobre dello scorso anno a Roma; però può giovare sottolineare come tra i dodici arrestati per l’assalto alla sede della CGIL ci fossero Roberto Fiore e Giuliano Castellino, esponenti di spicco di Forza nuova, e l’ex NAR Luigi Aronica.
La battaglia “no-vax”
Il conflitto ideologico degli scorsi mesi tra i “no-vax” e… il resto del mondo ha tuttavia avuto un parziale carattere di novità in certi suoi elementi, in primis quello politico. Scrivo “il resto del mondo” perché nel calderone dei “nemici” dei “no-vax” è finito un po’ di tutto: il governo (con particolare menzione per alcuni ministri), la carta stampata, una serie di opinionisti che dall’inizio della storia del COVID-19 ha avuto ampio (e talvolta incontrollato) spazio di espressione. Non si è formato, però, un vero e proprio movimento popolare “pro-vax” all’interno dell’opinione pubblica. E infatti chi si è sottoposto al vaccino ha trovato collocazione, semmai, in una specie di purgatorio: è stato fesso perché si è fatto fregare e ha fatto il vaccino, ma con l’attenuante dell’inconsistenza e della cattiva informazione e pertanto non ha rappresentato e non rappresenta un vero e proprio avversario; è stato piuttosto trattato dai “no-vax” con benevola accondiscendenza (probabilmente nella prospettiva di un’atroce, ineluttabile e ormai prossima uscita di scena).
Tornando sul punto, il parziale carattere di novità cui si accennava prima risiede nel fatto che anche cittadini che si collocano ideologicamente a sinistra, sigle sindacali di base, piccoli schieramenti della sinistra radicale e alcuni accademici dell’area progressista sono scesi in piazza, fisicamente o meno, a fianco di tutta una serie di persone non riconducibili, al contrario, ad alcuna bandiera specifica.
Probabilmente ciò è dettato dal fatto che nella seconda metà del 2021 la discussione si è concentrata, prima che sulla vaccinazione, sullo strumento del green pass.
Rispetto a questo tema il governo non ha avuto, a mio modesto parere, il coraggio di introdurre tempestivamente l’obbligo di vaccinazione per il COVID-19 – temendo probabilmente un’insurrezione popolare – ed ha invece cercato di spingere la popolazione a vaccinarsi rendendo il green pass vincolante prima per accedere a spazi pubblici al chiuso (bar, ristoranti, cinema, musei,…) e infine per potersi recare (fisicamente o meno) sul posto di lavoro. Causando, manco a dirlo, una sequela di proteste, manifestazioni, blocchi stradali e urla col megafono. Quindi l’attenzione si è spostata dal vaccino al green pass, che ha rappresentato un terreno più scivoloso, perché ha tirato in ballo in maniera non completamente peregrina il diritto al lavoro e, più in generale, alla libertà di spostamento e di vita (cosa che già le chiusure forzate dei mesi precedenti avevano messo in discussione). Oltre a introdurre l’elemento economico, perché i non vaccinati hanno dovuto potenzialmente sottoporsi a decine di tamponi dal costo non irrilevante (per le tasche del singolo cittadino o per quelle dello Stato).
Infine, all’inizio del 2022, il governo, numeri alla mano, si è visto comunque costretto a introdurre l’obbligo di vaccinazione, pur seguendo una timida via intermedia per la quale l’obbligo ha interessato solo gli ultracinquantenni.
Nei mesi di tensione a cavallo tra il 2021 e il 2022, le legittime obiezioni di cui sopra si sono mescolate e confuse proprio con le ragioni che hanno portato il singolo (anche non dichiaratamente “no-vax”) a rifiutare la vaccinazione.
E qui si torna quindi, volenti o nolenti, al vaccino e alle motivazioni “no-vax”. Le quali, è parso di capire, sono state principalmente di stampo medico-sanitario e si sono basate su una sequenza di pareri e studi di vario genere che spaziano dallo scientifico (l’inoculazione di sostanze non ben specificate, la modificazione genetica,…) al fantasioso (gli alieni) tirando in ballo finanche il “nuovo ordine mondiale”.
A scanso di equivoci, va chiarito che chi scrive è vaccinato, non teme particolarmente per la sua libertà (non in questi termini, per lo meno) e non si è sentito minacciato in questo frangente dallo Stato, né da nuovi ordini mondiali – semmai dal vecchio, quello che ha il volto e le inveterate usanze del Capitale.
Come spesso accade, dipende dal punto di vista: personalmente mi sono posto come serio il problema della proprietà dei brevetti sui vaccini, non di un avvelenamento su larga scala (controproducente per il Capitale stesso). Sarà la Storia a giudicarmi, a giudicarci.
L’utilizzo dei social media
Detto questo, mi permetto alcune riflessioni di ampio respiro.
Sia l’effetto-moda descritto prima, che rende transitorio ed effimero il dibattito pubblico, sia la formazione di opinioni spesso auto-referenziali ben alimentata dall’accesso incontrollato a fonti di informazione non verificabili sono due aspetti che vengono amplificati ed enfatizzati dall’utilizzo inconsulto dei social media.
C’è anzitutto un problema, a mio avviso evidente, di padronanza nell’utilizzo dello strumento. Meno di quindici anni fa, quando la piattaforma muoveva i suoi primi passi in Italia, l’utilizzo di Facebook era appannaggio di una fascia di popolazione piuttosto ristretta che per età si poteva definire, magari in maniera un po’ impropria, “universitaria”. Una fascia di popolazione che usava Facebook per restare in contatto e “fare rete”. Di lì a poco, quel primo famoso social network è diventato lo spazio di tutti, dai bambini agli anziani. E contemporaneamente i contenuti condivisi dagli utenti hanno cominciato a cambiare, diventando per certi versi più “seri” e “impegnati”. Sarà forse anche per questo, tra le altre motivazioni valide, che oggi le ragazze e i ragazzi più giovani sembrano più orientati ad utilizzare altre piattaforme, che si esprimono con altre modalità. Mentre su Facebook rimangono attivi (anzi, attivissimi, al limite dell’ipertrofia) quaranta-cinquanta-sessantenni che passano il tempo a sbranarsi commentando articoli di giornale dal titolo ammiccante o le opinioni (sovente mutuate da altri e generalmente non fondamentali e non richieste) proprie o di qualche santone. Persone che danno la sensazione di non comprendere appieno i meccanismi di funzionamento del social network e di esserne quindi fruitori davvero poco consapevoli.
Ci sono anche altri esempi di spazi virtuali che sono mutati, come quello di Instagram, nato come applicazione attraverso la quale caricare e condividere fotografie con gli amici e oggi diventato più che altro una vetrina (remunerativa) per influencer.
O per lo meno questo è ciò che posso vedere io, nella mia silenziosa frequentazione, al netto del filtro di questo o quel fantomatico “algoritmo”.
I social media evolvono ad alta velocità e nel giro di qualche anno, o qualche mese, ciascuno di noi rimane indietro. Ecco, pare che pochi siano pronti a muoversi mentalmente alla giusta velocità. Partendo dal presupposto che non siano tutti idioti, viene il sospetto che ciò che manca, più di tutto, sia la consapevolezza nell’utilizzo di questi strumenti.
Un altro aspetto fondamentale è quello legato alla circolazione delle informazioni. L’accesso a internet consente ormai da decenni a milioni di persone di reperire informazioni di qualsiasi tipo e provenienti da qualsiasi fonte, con gli aspetti positivi e quelli negativi che ciò porta con sé. Sui social media le informazioni seguono canali non casuali, vincolati alla cerchia di contatti ed ai meccanismi di funzionamento delle piattaforme, e dunque la libertà di informarsi è in realtà di per sé limitata. Le fonti di informazione con le quali entriamo in contatto sono parziali e tendenzialmente riconducibili ad un pensiero che già ci appartiene – e questo vale tanto più quanto la nostra volontà di approfondimento è ridotta.
Il nodo della formazione
Questo fraintendimento culturale si innesta nelle pieghe di un più ampio panorama, quello della formazione scolastica e (appunto) culturale, sempre più fragile. Le strutture scolastiche ed extra-scolastiche non sono apparentemente in grado, in questo frangente storico, di fornire adeguati strumenti interpretativi per decifrare i messaggi e gli stimoli ricevuti, per ricostruire il flusso degli eventi e anche per affrontare – in termini più prosaici – situazioni concrete, quasi che i loro contorni risultassero incomprensibili.
Quello dell’assenza di mezzi di interpretazione e controllo (delle informazioni, in particolare) è chiaramente il terreno ideale sul quale fioriscono le mistificazioni, siano esse attribuibili a colpa o a dolo.
E del resto cosa ci si può aspettare, dopo decenni durante i quali il mondo della scuola e quello della cultura sono stati scientemente e sistematicamente derubati di fondi pubblici (che non sono mai venuti a mancare, al contrario, per altri settori)?
Anche in queste circostanze il governo italiano, fedele alla linea, non ha saputo (o voluto, o un misto delle due cose) prendere in mano la situazione. La cronologia degli eventi è emblematica. Se l’organizzazione scolastica poteva essere stata colta alla sprovvista nella primavera del 2020, quando l’epidemia era appena scoppiata, e dunque la conclusione dell’anno scolastico 2019/2020 poteva aver giustificatamente arrancato verso il traguardo, non è invece comprensibile né scusabile che non siano stati impiegati i mesi estivi del 2020 (né quelli, peggio ancora, del 2021) per riprogrammare l’istituzione scolastica stessa, mettendo in discussione anche le metodologie – dove necessario – e prendendo provvedimenti a breve e medio termine. E tantomeno è accettabile che l’anno scolastico 2021/2022 si avvii a terminare impregnato delle stesse magagne e senza che si sia intravista all’orizzonte una volontà governativa di azione e cambiamento.
Anche la questione dell’edilizia scolastica è rappresentativa del problema. Si è discusso in lungo e in largo delle quote di studenti positivi al virus in base alle quali attivare o meno la DAD, ma ci si è ben guardati dal riconsiderare la numerosità delle classi e l’adeguatezza degli ambienti scolastici (anche solo in termini volumetrici).
In quasi due anni si sarebbe potuto pianificare, programmare, intervenire: sulla formazione degli insegnanti, sull’edilizia, sugli strumenti e le piattaforme digitali,… ma nulla, o poco, si è mosso. Nel solco della tradizione.
Se l’allucinazione social che stiamo scontando, il cattivo utilizzo degli strumenti digitali e – in conseguenza – il fraintendimento e travisamento delle informazioni possono essere almeno in parte ricondotti al sistematico smantellamento della struttura formativa, è lecito domandarsi in che direzione stiamo andando. Senza un intervento pubblico deciso che dia nuovi mezzi, rinnovati stimoli ed energie fresche, a cosa assisteremo tra dieci, quindici anni?